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Émile Zola

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Beschreibung

  • "Pierre Froment, giovane abate vissuto nei quartieri più degradati di Parigi, scrive un libro ispirato a ideali di giustizia sociale e carità cristiana, "Roma novella", subito messo all'Indice dalla Chiesa. Giunto a Roma per difendere la propria opera e ottenere udienza da papa Leone XIII, si renderà conto che il suo lavoro non potrà mai ottenere l'approvazione di quel Cattolicesimo attento a difendere il proprio potere temporale. Alle vicende dell'abate Froment, ospite nel Palazzo Boccanera in via Giulia, si intreccia la tragica storia d'amore dei cugini Dario e Benedetta, alla ricerca di un'impossibile felicità. L'incredibile, dimenticato capolavoro del maestro del naturalismo."

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Émile Zola

PARIGI

Tradotto da Carola Tognetti

ISBN 979-12-5453-085-6

Greenbooks editore

Edizione digitale

Novembre 2021

www.greenbooks-editore.com

ISBN: 979-12-5453-085-6
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Indice

LIBRO PRIMO

LIBRO SECONDO

LIBRO TERZO

LIBRO QUARTO

LIBRO QUINTO

LIBRO PRIMO

LIBRO PRIMO
I.
L’abate Pietro Froment, che aveva in quel giorno della fine di gennaio una messa da dire al Sacro Cuore di Montmartre, si trovava fin dalle otto sul poggio davanti alla basilica.
E prima d’entrare guardò per un momento Parigi che gli si svolgeva, sterminata, sotto i piedi.
Era, dopo due mesi di freddo intenso, di neve e di ghiaccio, una Parigi sommersa sotto un’umidità tetra e piena di brividi. Dal vasto cielo color di piombo, pioveva il lutto di una fitta nebbia. Tutta la parte orientale della città, i quartieri di miseria e di lavoro, pareva affondata in nembi di fumo rossastro dove s’indovinavano i soffi dei cantieri e delle officine; mentre verso l’occidente, verso i quartieri di ricchezza e di godimento, l’inondazione della nebbia si diradava, diventando un velo tenue, immobile di vapore. S’intravedeva appena la linea dell’orizzonte; il campo sconfinato delle case somigliava un deserto sassoso, sparso di gore stagnanti, che mettevano nei vani un vapore pallido, a cui sovrastavano le cime degli edifizi e delle vie superiori, di un nero di fuliggine. Una Parigi di mistero, velata di nembi, come sepolta sotto la cenere di qualche disastro, già quasi scomparsa nel dolore e nell’obbrobrio che la sua immensità dissimulava.
Magra forma esile nella sottana aderente, Pietro guardava, quando l’abate Rose, che pareva si fosse riparato dietro uno dei pilastri del portico per spiarlo, gli mosse incontro.
— Ah! siete qui finalmente, caro figliuolo! Ho qualcosa da chiedervi.
Sembrava impacciato, inquieto. Si accertò con una occhiata diffidente che non v’era alcuno. Poi, quasi la solitudine non bastasse a rassicurarlo, lo condusse un po’ più in là, sotto la brezza glaciale di cui pareva che egli non si avvedesse.
— Ecco; è un povero uomo di cui mi hanno parlato, un ex-imbianchino, un vecchio di settant’anni che non è più in grado di lavorare naturalmente e muore di fame in uno stambugio di via dei Salici… E così, caro figliuolo, ho pensato a voi; mi son detto che acconsentireste a portargli queste tre lire da parte mia perchè abbia, se non altro, un po’ di pane per alcuni giorni.
— Ma perchè non vi andate in persona?
Di nuovo, l’abate Rose parve sbigottito, e con sguardi paurosi e confusi, disse:
— Oh! no, oh! no: non posso più io, dopo tutte le noie che ho avute! Sapete che mi fanno la guardia, che avrei delle altre ramanzine se mi sorprendessero a far la limosina senza saper precisamente a chi la fo. E’ vero che per aver queste tre lire ho dovuto vendere qualche cosa… Ve ne scongiuro, caro figliuolo, rendetemi questo servizio!
Pietro, col cuore stretto, considerava il buon prete canuto, con la tumida bocca piena di bontà, i limpidi occhi infantili nella faccia rotonda e sorridente. E ricordava con un rifluire di amarezza nell’anima la storia di quell’amante della povertà, la disgrazia in cui era caduto pel suo candore sublime da sant’uomo caritatevole. Il suo piccolo pianterreno di via Charonne di cui faceva un asilo, raccogliendovi tutte le miserie del trivio, era diventato una fonte di scandalo. Delle sgualdrine vi riparavano quando non avevano trovato un uomo che le conducesse seco.
Vi si davano degli appuntamenti turpi in una promiscuità mostruosa. Ed una bella notte la questura vi era calata per arrestare una ragazzetta tredicenne accusata d’infanticidio. L’autorità diocesana, molto turbata, aveva costretto l’abate a chiudere il suo asilo, mandandolo, dalla chiesa di S. Margherita, a S. Pietro di Montmartre, dove aveva ritrovato il suo posto di vicario. Non era una disgrazia, ma uno spostamento. Lo avevano rimproverato però e lo sorvegliavano, come diceva, ed egli si sentiva molto infelice ed umiliato di non poter fare la limosina che di nascosto, come un prodigo senza cervello che arrossisce delle sue colpe.
Pietro prese le tre lire.
— Vi prometto, caro amico, di far la vostra commissione, oh! di tutto cuore.
— Andateci dopo la messa, eh? Si chiama Laveuve, sta in via dei Salici, una casa con cortile, prima della via Mercadet… Oh! la troverete subito… E sareste pur buono di venire e rendermi conto della visita questa sera, verso le cinque, alla Maddalena, dove vado alla conferenza di monsignor Martha. E’ stato così buono per me!… Non ci verrete anche voi?
Pietro rispose con un gesto evasivo. Monsignor Martha, vescovo di Persepolis, influentissimo all’Arcivescovado dacchè si era consacrato, con propaganda piena di genio, ad aumentar del decimo le sottoscrizioni del Sacro Cuore, aveva infatti preso le parti dell’abate Rose, ed era lui che aveva ottenuto che lo lasciassero a Parigi, collocandolo a San Pietro di Montmartre.
— Non so se potrò assistere alla conferenza ‒ disse Pietro; ‒ ma in tutti i modi verrò a cercar di voi.
Il vento soffiava, un freddo intenso li penetrava entrambi, su quel poggio deserto, nella nebbia che trasformava l’ampia città in un oceano di vapori. Ma si udì un passo, e l’abate, voltandosi ripreso da diffidenza, vide un uomo altissimo, robustissimo, calzato di soprascarpe di gomma e con la testa nuda, una testa con folti capelli bianchi tagliati a spazzola, che passava con l’aria di uno che abita nel vicinato.
— Non è vostro fratello? ‒ domandò il vecchio prete.
Pietro non aveva fatto nessun movimento; rispose con voce pacata:
— Infatti, è mio fratello Guglielmo. L’ho riveduto dacchè vengo alle volte al Sacro Cuore. Possiede qui vicino una casa, dove sta da vent’anni, credo. Quando lo incontro ci diamo una stretta di mano. Ma non sono neppure andato da lui… Ah! tutto è morto tra noi, non abbiamo più nulla in comune, dei mondi ci separano.
Il tenero sorriso dell’abate ricomparve. Fece un gesto come per dire che non si doveva mai disperare dell’amore. Guglielmo Froment, scienziato di grande intelligenza, chimico che viveva in disparte, da ribelle, era suo parrocchiano ora, ed egli sognava probabilmente di riconquistarlo a Dio, quando passava davanti alla casa, rumorosa per costante attività, dove il chimico abitava con tre figli già adulti.
— Ma, caro figliuolo, vi tengo qui al freddo ‒ rispose ‒ e non avrete caldo!… Andate a dire la vostra messa; ci vedremo questa sera alla Maddalena.
E, supplice, assicurandosi di nuovo che nessuno origliava, soggiunse, col suo fare da bambino in colpa:
— E non ne fate motto con nessuno, oh! mi raccomando; direbbero di nuovo che non so condurmi a dovere.
Pietro lo seguì con lo sguardo, mentre si allontanava, dirigendosi verso via Cortot, dove abitava un piccolo pianterreno umido, rallegrato da un lembo di giardino.
La cenere di disastro che sommergeva Parigi si faceva più fitta sotto le raffiche del vento gelido.
Ed entrò finalmente nella basilica, col cuore a brani, traboccante dell’amarezza che quella storia vi aveva fatto rifluire, quel fallimento della carità, l’ironia atroce di quel sant’uomo che, punito per aver fatto la limosina, si nascondeva per farla ancora. Nulla potè calmare il bruciore della ferita riaperta in lui, nè la pace tepida in cui penetrava, nè la muta solennità dell’ambiente largo e profondo, nella sua nudità di marmi nuovi, senza quadro, senza fregio alcuno, con la nave tagliata a metà dell’armatura che turava la cupola del duomo ancora in costruzione. In quell’ora mattutina, sotto la luce scialba che penetrava dalle finestre alte e strette, si udivano già delle messe di supplicazione a parecchi altari; dei ceri d’implorazione ardevano già in fondo all’abside. Ed egli si affrettò a recarsi in sacrestia e ad indossare i paludamenti sacri per dire la sua messa alla cappella di San Vincenzo de’ Paoli.
Ma i ricordi avevano sciolto il freno, e Pietro era intieramente ripreso dal dolore, mentre seguiva i riti, facendo da automa i gesti professionali.
Dacchè era tornato da Roma, tre anni prima, egli viveva nell’angoscia più amara in cui un uomo possa cadere. Anzitutto, tentando una prima esperienza per ritrovare la fede perduta, era andato a Lourdes per ottenere la credenza ingenua del fanciullo che si inginocchia e prega, la fede primitiva dei giovani popoli, prostrati sotto il terrore dell’ignoranza. E si era ribellato maggiormente davanti alla glorificazione dell’assurdo, la decadenza del senso comune, convinto che la salvezza e la pace degli uomini, dei popoli dell’oggi, non poteva essere in quella rinunzia puerile alla ragione.
Poi, ripreso dal bisogno di amare, pur facendo la parte intellettuale di quella ragione esigente, aveva giuocato la sua pace in una seconda esperienza, andando a Roma per vedere se il cattolicismo poteva rinnovellarsi, tornando allo spirito del cristianesimo primitivo, diventando la religione della democrazia, la fede che il mondo moderno a soqquadro ed in pericolo di morte aspettava per pacificarsi e vivere; e non vi aveva trovato che delle rovine, il tronco fradicio di un albero inetto ormai a rifiorire in nuove primavere; non vi aveva udito che lo schianto supremo del vecchio edifizio sociale, prossimo a sfasciarsi.
Allora, ripiombato nel dubbio infinito, nello scetticismo completo, era tornato a Parigi, richiamatovi dall’abate Rose, in nome dei loro poveri, per dimenticarsi, sacrificarsi, credere in loro, poichè essi soli gli restavano con le loro spaventose sofferenze; ed allora, dopo tre anni, aveva veduto quel naufragio della bontà stessa, la carità inutile e schernita.
Quei tre anni, Pietro li aveva vissuti in una tormenta sempre più aspra, in cui tutto l’essere suo era naufragato, la sua fede era morta per sempre e morta persino la sua speranza di valersi della fede delle masse per la salvezza comune. Egli negava tutto ormai, non aspettando che la catastrofe finale, inevitabile, la rivolta, la strage, l’incendio, che dovevano annientare un mondo colpevole e condannato.
Vigilando, prete senza fede, sulla fede altrui, faceva castamente, onestamente il suo mestiere, nell’altera tristezza di non aver potuto abdicare alla sua intelligenza come aveva abdicato al fremito amoroso delle sue carni ed al suo sogno di redentore delle genti, sempre in piedi sulla breccia, in una maestà fosca e solitaria.
E quello scettico disperato, che aveva toccato il fondo dell’abisso, serbava un’attitudine così nobile, un contegno da cui spirava un profumo di bontà così pura, che si era acquistato nella sua parrocchia di Neuilly la fama di un giovane santo amato da Dio, di cui la preghiera otteneva dei miracoli. Egli non osservava che la forma esteriore, non aveva che il gesto del prete ormai, come un sepolcro vuoto in cui non rimane nemmeno più la cenere della speranza; e delle donne addolorate, delle parrocchiane in lacrime, lo adoravano, baciandogli la sottana: ed era una madre torturata di cui la creaturina giaceva in punto di morte nella culla, che lo aveva scongiurato di chiederne la guarigione a Gesù, sicura che Gesù gliela avrebbe concessa, in quel santuario di Montmartre, in cui ardeva il prodigio del suo Cuore incendiato d’amore.
Frattanto Pietro, vestito dei paludamenti sacri, era entrato nella cappella di San Vincenzo de’ Paoli. Salì i gradini dell’altare, cominciò a dir messa, e, quando si volse, con le braccia allargate, per benedire, apparve con la faccia incavata, la bocca soave e stirata dall’amarezza, gli occhi tenerissimi, fatti cupi dal dolore.
Non era più il giovane sacerdote, che, col volto acceso da intensa febbre di tenerezza, partiva per Lourdes; non era più l’apostolo che partiva per Roma colla fronte raggiante.
Il suo doppio retaggio restava in lotta perenne: il padre, a cui doveva la torre inespugnabile della fronte; la madre, a cui doveva le sue labbra assetate d’amore, continuavano il conflitto, la battaglia umana del sentimento e della ragione, in quel volto, oggi solcato dal dolore, in cui, nei momenti di oblìo, si leggeva lo scompiglio dell’interna disperazione.
Le labbra confessavano ancora la sete insaziata di amare e di vivere, una sete che era certo ormai di non appagare, mentre la fronte altera, la cittadella che gli imponeva il lutto, si ostinava a non arrendersi, sotto gli assalti dell’errore.
Ma egli si irrigidiva, dissimulando lo spavento del nulla in cui si dibatteva, restando superbo nel contegno, facendo i gesti, profferendo le parole del rito con maestà.
E la madre, che se ne stava fra alcune donne genuflesse, la madre che aspettava da lui un intervento supremo, che lo credeva a colloquio con Gesù per la salvezza della sua creatura, lo vedeva raggiare, fra il pianto, di una bellezza d’angelo, nunzio della grazia divina.
Quando, dopo l’offertorio, Pietro scoprì il calice, ebbe un senso di disprezzo per sè medesimo. La scossa avuta da lui era troppo profonda e pensava sempre a quelle cose.
Che fanciullaggini nelle sue due esperienze di Lourdes e di Roma, che ingenuità da povero essere smarrito, consumato dalla smania intensa di credere e di amare, essersi imaginato che la scienza attuale potesse patteggiare in lui con la fede del nulla, e sopratutto credere che lui, infimo pretucolo, potesse fare da maestro al papa, deciderlo ad essere un santo ed a cambiare la faccia del mondo! Ne sentiva una immensa vergogna.
Poi, era anche la sua idea di scisma che lo faceva arrossire. Si rivedeva a Roma, col sogno di scrivere un libro in cui si staccherebbe con violenza dal cattolicismo per predicare la nuova religione delle democrazie, il Vangelo epurato, vivo, umano! Che ridicola follìa! Uno scisma! Aveva conosciuto a Parigi un abate di gran cuore e di grande ingegno, che aveva tentato di promuoverlo, quel famoso scisma pronosticato ed aspettato! Ah! pover’uomo, che tristo e derisorio assunto si era preso, fra l’incredulità universale, la gelida indifferenza degli uni, gli scherni e le ingiurie degli altri! Se Lutero ricomparisse ai tempi nostri, finirebbe col morir di fame, dimenticato, in una soffitta di Batignolles. Uno scisma non può riuscire dove il popolo non ha più fede e si stacca dalla Chiesa per mettere le sue speranze altrove. Tutto il cattolicismo, anzi, tutto il cristianesimo stava per essere travolto nell’abisso, perchè, all’infuori di alcune massime morali, il Vangelo non era più un codice sociale possibile. E quella certezza accresceva il suo tormento, nei giorni in cui finiva col disprezzarsi perchè celebrava il mistero divino di quella messa, che era diventata per lui il gesto di una religione defunta.
Pietro, che aveva colmato a metà il calice col vino dell’ampolla, si lavò le mani e scorse ancor una volta la madre, col viso spirante calda supplicazione. Allora pensò che era per lei, per un pensiero pietoso d’uomo vincolato da un giuramento, che era rimasto il sacerdote senza fede che alimenta la fede altrui col pane dell’illusione. Ma quell’attitudine eroica, quel dovere superbo in cui si rinchiudeva, non potevano scompagnarsi da un’angoscia crescente.
L’onestà la più elementare non gli consigliava forse di spogliare le vesti sacerdotali, di tornare fra gli uomini? V’erano dei momenti in cui la falsità della sua posizione gli metteva la nausea del suo inutile eroismo, ed egli si chiedeva di nuovo se non era codardo e pericoloso lasciare che le turbe vivessero nella superstizione. Certo, s’era per molto tempo stimata necessaria la menzogna di un Dio di giustizia e di vigilanza, di un paradiso futuro in cui erano compensate tutte le pene di quaggiù, facendolo servir di conforto alle miserie dei poveri mortali; ma che inganno, che sfruttamento tirannico dei popoli, e come sarebbe più virile amputar brutalmente le genti, dando loro il coraggio di vivere la vita vera, foss’anche nelle lagrime!
Infatti, se oggi voltavano le spalle al Cristianesimo, non era perchè sentivano il bisogno di un ideale più umano, di una religione di salute e di gioia che non fosse una religione della morte?
Il giorno in cui il concetto della carità venisse a mancare, il Cristianesimo andrebbe in isfacelo con esso, perchè era edificato sull’idea della carità divina che corregge l’ingiustizia del fato, promettendo i premi futuri a quelli che soffrono quaggiù.
E la carità veniva meno davvero; i poveri non avevano più fede in lui, irritandosi di fronte a quel paradiso bugiardo di cui la promessa aveva per tanto tempo alimentato la loro pazienza, esigendo che non si prorogasse più la resa di conto della loro parte di felicità fino al di là del sepolcro.
Un grido di giustizia erompeva da tutte le labbra; la giustizia su questa terra, la giustizia per chi ha fame, per chi ha sete, per quelli che l’elemosina è stanca di soccorrere e che dopo diciotto secoli di Vangelo sono ancora senza pane.
Quando Pietro ebbe, coi gomiti sulla tavola dell’altare, vuotato il calice, dopo avervi spezzato l’ostia, si sentì invaso da una angoscia ancora più intensa.
Era dunque una terza esperienza che s’iniziava in lui, quella lotta suprema della giustizia contro la carità in cui il suo cuore e la sua ragione s’erano impegnati, in quell’immensa Parigi, velata di cenere, gravida di un arcano così terribile?
L’anelito del divino combatteva in lui contro l’intelligenza dominatrice. Come si potrebbe mai appagare nelle turbe la sete del mistero? La scienza poteva bastare, toltine pochi eletti, per appagare i desideri, cullare il dolore, esaudire il sogno delle genti? E che ne sarebbe di lui stesso nel fallimento di quella carità che era la sola scusa che lo tenesse in piedi da tre anni, occupando tutte le sue ore, dandogli l’illusione di sacrificarsi agli altri, di essere utile?
Ad un tratto, la terra gli mancava sotto i piedi, non udiva che il grido del popolo, il muto secolare che chiedeva giustizia, invocando e minacciando di riprendere la sua parte, trattenuta con la violenza e l’astuzia.
Nulla più poteva ritardare l’inevitabile catastrofe, la lotta fratricida delle classi che distruggerebbe il mondo decrepito, condannato a sparire sotto il cumulo dei suoi delitti. Ne aspettava d’ora in ora lo sfacelo. Parigi sommersa nel sangue, Parigi in fiamme, in una tristezza atroce.
E nel suo raccapriccio della violenza si sentiva agghiacciato, non sapeva dove trovare la fede novella che doveva scongiurare il pericolo, conscio che il problema sociale formava una cosa stessa col problema religioso, ed era l’unico in giuoco nel terribile e quotidiano travaglio di Parigi; ma, troppo turbato egli stesso, messo troppo in disparte dal suo carattere sacerdotale, troppo straziato dal dubbio e dall’impotenza per dire dove si trovassero la verità, la salute, la vita. Ah! essere sani, vivere; appagare finalmente la ragione ed il cuore nella pace, nel lavoro placido, semplice ed onesto che l’uomo è venuto a compiere sulla terra!
La messa era finita e Pietro scendeva dall’altare, quando la madre in lagrime accanto a cui egli passava, afferrò con le mani tremanti un lembo del camice e lo baciò fervidamente, appassionatamente, come si bacia la reliquia del santo da cui si aspetta la salvezza.
Essa lo ringraziava del miracolo che aveva certamente ottenuto, sicura di trovare la sua creatura guarita.
Egli fu profondamente scosso da quell’amore, da quella fede ardente, sebbene sentisse con maggior amarezza il dolore di non essere il ministro sovrano che quella donna lo credeva, il santo capace di ottenere una proroga alla morte. Ma la rimandava confortata, rincorata, e fu con invocazione ardente che scongiurò la Forza ignota e cosciente (se esisteva!), di venir in aiuto a quella misera creatura. Poi, quando si fu svestito in sacrestia e si ritrovò fuori, davanti alla basilica, sferzato dal rigido soffio invernale, fu ripreso da un brivido intenso, e si sentì agghiacciato mentre guardava attraverso alla nebbia se il nembo d’ira e di giustizia non aveva già spazzato Parigi, se non era già matura la catastrofe che doveva inghiottirla una mattina, non lasciando sotto il cielo di piombo, che l’appestata palude delle sue macerie. Subito si mosse per far la commissione dell’abate Rose, e seguendo la via Norvins, sulla cresta di Montmartre, giunse in via dei Salici, di cui scese l’erto pendìo, fra mura muscose, dall’altro lato di Parigi.
Le tre lire che teneva in mano, in fondo alla tasca della sottana, gli mettevano in cuore un misto di emozione pietosa e di sordo sdegno contro la vana, l’inutile carità. Man mano che scendeva però le file interminabili di scale delle terrazze, certi luoghi miserabili intraveduti da lui, gli stringevano il cuore di pietà infinita. V’era in quel punto tutto un rione nuovo, in costruzione, lungo le larghe vie aperte dopo i grandi lavori del Sacro Cuore.
Delle case borghesi a molti piani, sorgevano già in mezzo ai giardini sventrati, fra terreni incolti, ancora cinti di steccati.
E le loro eleganti facciate d’un bianco d’intonaco fresco, facevano apparir più tetre, più lebbrose le vecchie bicocche cadenti, ancora in piedi, lì vicino: delle taverne losche con mura color di sangue, dei quartieri di povertà e di dolore, con case luride e nere, dove il gregge umano si accatastava in orribile promiscuità.
In quel giorno, sotto il cielo fosco, la melma inondava il lastrico sfondato dai carri, un’umidità glaciale invadeva le mura, una tristezza infinita spirava da tanto sudiciume e da tanta miseria.
Pietro che era andato fino alla via Mercadet, tornò indietro, ed in via dei Salici, certo di non sbagliare, entrò nel cortile di una specie di caserma o d’ospedale, cortile cinto da tre fabbricati irregolari. Era una cloaca dove le immondizie accumulate nei due mesi di gelo, si scioglievano ora: un odore fetido saliva da quell’immondo lago di fanghiglia.
La casa era smantellata, degli antri si aprivano boccheggianti come ingressi di cantina, dei fogli di carta screziavano i vetri sucidi, dei cenci infami pendevano dai ballatoi come bandiere di morte. In fondo alla botteguccia che serviva da portineria, Pietro non vide che un uomo infermo, ravvolto nei brandelli senza nome di una vecchia coperta di cavallo.
— Sta qui un vecchio operaio, chiamato Laveuve? Che scala, che piano?
L’uomo non rispose, sbarrando due occhi stralunati da idiota che si spaventa.
Probabilmente il portinaio era fuori.
Il prete aspettò per un momento, poi, scorgendo una bambina in fondo alla corte, si fece animo ed attraversò in punta di piedi la cloaca.
— Figliuola, conosci qui in casa un vecchio operaio che si chiama Laveuve?
La ragazzetta, di cui la magra personcina non era coperta che da una veste di tela rosa in brandelli, batteva i denti, con le mani deturpate dai geloni. Alzò il viso delicato e bello sotto l’aspro morso del freddo.
— Laveuve, non so, non so…
E con gesto inconscio da mendicante stendeva una delle povere manine, gonfie, sanguinanti. Poi, quando ebbe ricevuto da Pietro una moneta d’argento si diede a galoppare come una capra scappata, in mezzo alla fanghiglia, cantando con voce stridula:
— Non so, non so…
Pietro si decise a seguirla. Era sparita in uno degli antri spalancati, ed egli salì dietro di lei una scala scura e fetida, dai gradini logori, così viscida per buccie di legumi, che dovette aggrapparsi alla corda unta mercè cui si saliva. Ma tutte le porte erano chiuse, bussò inutilmente a parecchie, non ottenendo che all’ultima dei ruggiti sordi, quasi quasi qualche belva disperata stesse rinchiusa là entro.
Tornato nel cortile esitò, poi si mise per un’altra scala ‒ e qui delle grida acute, grida da bambino sgozzato, lo assordarono. Salì seguendo quel rumore e finì col trovarsi davanti ad una camera spalancata in cui un bambino, solo, legato ad una seggiolina, probabilmente perchè non cadesse, urlava senza riprender fiato. Scese di nuovo, scombussolato per tanta penuria e tanto squallore.
Ma una donna rincasava portando tre patate nel grembiale, ed egli la interrogò, mentre ella guardava con diffidenza la sua sottana.
— Laveuve, Laveuve; non potrei dire. Se ci fosse la portinaia saprebbe forse… Capirete abbiamo cinque scale… non ci si conosce tutti, eppoi la gente cambia così spesso… Ad ogni modo, guardate laggiù in fondo.
La scala del fondo era la più orribile di tutte, coi gradini torti, le mura viscide, come stillanti un sudore di agonia.
Ad ogni pianerottolo, le porte soffiavano un lezzo pestifero, e da ogni casa uscivano lamenti, alterchi, un atroce tanfo di miseria. Un uscio si aprì, sbattacchiando, ed apparve un uomo che trascinava una donna pei capelli mentre tre marmocchi piangevano.
Al secondo piano, in una visione rapidamente intraveduta, Pietro notò una ragazza gracile che tossiva, col petto già avvizzito, portando attorno con impeto un lattante a cui, disperata, non aveva più latte da dare.
Poi, in un appartamento vicino, scorse il gruppo straziante di tre esseri, coperti appena in parte da cenci, esseri senza età nè sesso, i quali nell’assoluto squallore di una camera vuota, mangiavano voracemente nella stessa scodella una zuppa che nessun cane avrebbe accettato. Alzarono appena il capo, brontolando, senza rispondere alle domande.
Pietro stava per scendere, quando in cima, all’ingresso di un androne, tentò per l’ultima volta di bussare ad un uscio.
Gli aprì una donna di cui i capelli arruffati cominciavano già ad incanutire, sebbene non dovesse avere più di quaranta anni. Le sue labbra scolorite, gli occhi incavati nella faccia gialla, spiravano una stanchezza assoluta, avevano un’espressione di umiltà e di timore continuo sotto i colpi accaniti della miseria.
Si sbigottì nel vedere la sottana e balbettò inquieta:
— Entrate, entrate, signor abate.
Ma un uomo che Pietro non aveva veduto sulle prime, un operaio sui quarant’anni anche lui, alto, scarno, calvo, d’un fulvo brizzolato, coi capelli ed i baffi radi, fece un gesto impetuoso, la minaccia abbozzata di gettare il prete fuori dell’uscio. Si frenò peraltro, e, sedendo accanto ad una tavola sbilenca, gli voltò le spalle con ostentazione. E siccome v’era in camera una ragazzetta bionda, dagli undici ai dodici anni, col viso affilato e dolce, e quell’aria intelligente ed un po’ vecchia che la gran miseria dà ai bambini, la chiamò e se la tenne fra le ginocchia, come per preservarla dal contatto della sottana.
Col cuore stretto da quell’accoglienza, Pietro leggendo la miseria assoluta di quella famiglia, nella stanza nuda e senza fuoco, nella tetra tristezza di quelle tre creature, si decise però a fare la sua domanda:
— Non conoscereste in questa casa, signora, un vecchio operaio che si chiama Laveuve?
La donna che tremava ora di averlo introdotto, vedendo che spiaceva evidentemente al suo uomo, tentò in atto timido di combinar le cose.
— Laveuve, Laveuve, no… Di’ su, Salvat, hai udito? lo conosci forse tu?
Salvat si limitò a far un alzata di spalle; ma la piccina non potè tenere la lingua in freno.
— Di’ su, mamma Teodora… E’ forse il Filosofo.
— Un ex‒imbianchino ‒ continuò Pietro ‒ un vecchio ammalato che non può più lavorare.
Questa volta, madama Teodora comprese:
— In tal caso, sì, è lui… è lui… Lo chiamiamo il Filosofo, un soprannome che gli hanno dato nel vicinato. Ma può darsi benissimo che si chiami Laveuve.
Alzando il pugno verso il soffitto, verso il cielo, Salvat parve protestare contro l’infamia di una società e d’un Dio che lasciavano i vecchi lavoratori morir di fame come cavalli bolsi.
Ma non parlò, ricadde in un silenzio tetro e profondo, in quella specie di bieca fantasticheria in cui era già immerso, all’apparire di Pietro.
Faceva il meccanico e guardava persistentemente la borsa dei suoi ferri posta sul tavolo, una piccola borsa di pelle, che un oggetto qualsiasi gonfiava da una parte.
Pensava probabilmente al lungo sciopero, alla sua inutile ricerca di lavoro nei due ultimi mesi di quell’inverno terribile. O fors’anche vedeva nella fantasticheria incendiaria che gli illuminava i grandi occhi azzurri, strani, torbidi ed ardenti, la rivincita prossima e sanguinaria.
Ad un tratto, si accorse che sua figlia aveva preso la borsa, procurando di aprirla per vedere. Ebbe un fremito e parlò finalmente con la bocca amara, nell’improvvisa emozione che lo faceva impallidire.
— Celina, lascia un po’ stare! T’ho vietato di toccare i ferri.
Prese la borsa e la pose dietro di sè, vicino alla parete, con grande cura.
— E così, signora? ‒ domandò Pietro ‒ quel Laveuve sta a questo piano?
Madama Teodora consultò Salvat con un’occhiata paurosa.
Non era d’avviso di maltrattare i curati quando si prendevano la briga di venire, perchè qualche volta c’era da guadagnare con loro. E quando si avvide che Salvat, ripiombato nelle sue fosche meditazioni, la lasciava libera di fare a modo suo, si profferse subito.
— Se il signor curato desidera, lo accompagno. E’ per l’appunto in fondo all’andito. Ma bisogna esser pratici, perchè vi sono degli altri gradini da salire.
Celina vedendo un divertimento in quella gita, scappò dalle ginocchia del padre per accompagnare il prete anche lei.
E Salvat rimase solo nella camera di squallore e di angoscia, d’ingiustizia e d’ira, senza legna, senza pane, perseguitato dal suo sogno di fuoco, inchiodando di nuovo i suoi occhi sulla borsa, come se là, in quegli arnesi, stesse la guarigione del mondo.
Infatti bisognò fare qualche gradino e Pietro, seguendo madama Teodora e Celina, si trovò in una specie d’angusto solaio, sotto il tetto, una tana di pochi metri quadrati in cui non si poteva star ritti.
La luce non entrava che da un abbaino, ma siccome la neve ostruiva il vetro, dovettero lasciar la porta spalancata per vederci. Penetrava invece l’acqua della neve che si scioglieva a goccia a goccia, inondando l’ammattonato.
Dopo quelle lunghe settimane di freddo intenso, una umidità scialba sommergeva tutto nel suo brivido. E colà, senza una seggiola, senza neppure un pezzo di legno per tavola, in un angolo del suolo nudo, Laveuve giaceva sopra un mucchio di cenci luridi, come una bestia quasi crepata sopra un mondezzaio.
— Guardate! ‒ disse Celina con la sua voce strascicante, ‒ eccolo qua. Quest’è il Filosofo.
Madama Teodora si era chinata per origliare se viveva ancora.
— Sì, ‒ rispose, ‒ credo che dorma. Oh! se mangiasse tutti i giorni, starebbe bene. Ma come si fa? Non ha più nessuno, e quando si è sui settanta il meglio sarebbe di buttarsi in acqua. Nel suo mestiere d’imbianchino, fin dai cinquant’anni alle volte non si può più lavorare sulle scale. Lui ha trovato sulle prime dei lavori a livello. Poi ha avuto la fortuna di custodire dei cantieri. Ed ora è finita, non lo vogliono in nessun luogo, e da due mesi è piombato in questo cantuccio per morire. Il padrone di casa non ha avuto il coraggio di buttarlo in strada, sebbene non sia la voglia di farlo che gli manchi… Noi, gli si porta alle volte un po’ di vino, qualche crosta di pane… Ma quando non si ha più nulla per sè, come volete che si dia agli altri?
Inorridito, Pietro guardava quella spaventosa rovina, quello che cinquant’anni di lavoro, di miseria e d’ingiustizia sociale avevano fatto d’un uomo. Finì col distinguere la testa bianca, logora, depressa, sformata, tutti i solchi messi da un arduo lavoro senza speranza sopra una faccia umana.
La barba incolta che invadeva i lineamenti, dava all’uomo un aspetto di vecchio cavallo intonso; aveva le mascelle torte, i denti erano caduti, gli occhi vitrei, il naso affondava nella bocca. E quello che colpiva specialmente in lui era quell’aspetto di bestia rovinata dalle fatiche del mestiere, logora, distrutta, buona solo per lo scannatoio.
— Ah! povera creatura! ‒ mormorò il prete, fremendo. ‒ E lo lasciano morire di fame così, solo, senza soccorso? E nessun ospedale, nessun ospizio l’ha raccolto?
— Caspita! ‒ riprese madama Teodora con la sua voce dolente e rassegnata ‒ gli ospedali sono per gli ammalati, e non è ammalato Laveuve; si esaurisce semplicemente per difetto di forze. Eppoi, non è sempre facile di trattare con lui; sono venuti anche poco tempo fa per metterlo in un asilo, ma non vuol star rinchiuso, risponde delle villanie a quelli che lo interrogano, tacendo che corre voce che beva e che sparli dei signori… Ah! grazie al cielo sarà liberato fra poco!
Pietro si chinò vedendo che Laveuve spalancava gli occhi, e parlandogli con tenerezza gli disse che veniva per conto di un amico a recargli un po’ di danaro, perchè si comperasse le cose più necessarie. Sulle prime il vecchio, vedendo la veste da prete, aveva borbottato delle parolacce. Ma serbava nel suo grande sfinimento la malizia birichina dell’operaio di Parigi.
— Se è così, ne berrei volentieri un goccio ‒ disse con voce chiara ‒ e mangerei un boccone di pane se il danaro basta, perchè da due giorni non ne sento il sapore.
Celina si profferse, e madama Teodora la mandò a prendere una micca ed un litro coi danari dell’abate Rose.
E nel frattempo disse a Pietro che Laveuve doveva entrare nell’asilo degli Invalidi del lavoro, un’Opera pia, presieduta dalla baronessa Duvillard, ma probabilmente l’inchiesta aveva dato dei risultati sfavorevoli, perchè non se n’era fatto nulla.
— La baronessa Duvillard? Ma io la conosco, andrò oggi stesso da lei! ‒ esclamò Pietro di cui il cuore sanguinava. ‒ E’ impossibile lasciar un uomo in questo stato.
E, siccome Celina tornava col pane e col litro, sollevarono tutti insieme Laveuve, lo posero più saldo sul suo mucchio di cenci, gli diedero da bere e da mangiare, lasciandogli vicino l’avanzo del pane, un gran pane di quattro libbre, e quello del vino, raccomandandogli però di non finirlo subito se non voleva restar soffocato.
— Il signor abate dovrebbe darmi il suo indirizzo pel caso in cui io avessi qualcosa da comunicargli ‒ disse madama Teodora, quando si ritrovò davanti alla sua porta.
Pietro non aveva biglietti da visita, e tornarono in camera tutti e tre. Ma Salvat non era più solo: discorreva molto piano, molto presto, vicin vicino, bocca a bocca, con un giovine sui vent’anni. Questi, esile, bruno, coi capelli tagliati a spazzola e la barba nascente, aveva occhi chiari, un naso dritto, labbra sottili in una faccia pallida segnata da alcune lentiggini e lampeggiante di viva intelligenza. Rabbrividiva sotto la giacca logora, con la fronte dura e caparbia.
— E’ il signor abate che vuoi lasciarmi il suo indirizzo per l’affare del Filosofo ‒ spiegò madama Teodora, indispettita di trovare un estraneo.
I due uomini fissarono il prete, poi si sogguardarono con espressione terribile, e subito tacquero, non dissero più sillaba nel freddo glaciale che pioveva dalla vôlta.
Salvat andò a prendere la borsa dei ferri con nuove e grandi precauzioni.
— Dunque torni a cercar lavoro? ‒ chiese madama Teodora.
Non rispose, facendo un atto di collera, quasi per dire che non voleva più saperne del lavoro giacchè da tanto tempo il lavoro non voleva più saperne di lui.
— Tenta ad ogni modo di riportar qualche cosa, sai che non abbiamo nulla in casa… A che ora torni?
Con un altro gesto parve che egli significasse che tornerebbe quando gli fosse possibile, forse mai. E, per quanto volesse ostentar l’eroismo, delle lagrime offuscarono i suoi torbidi occhi azzurri, accesi da strana fiamma, ed afferrò sua figlia, l’abbracciò impetuosamente, disperatamente, poi se ne andò con la borsa sotto al braccio, seguìto dal giovane compagno.
— Celina ‒ riprese madama Teodora ‒ da’ la tua matita al signor abate. Così, mettetevi qui, sarete più comodo per scrivere.
Poi, quando Pietro ebbe preso posto sulla seggiola, poco prima occupata da Salvat:
— Non è cattivo ‒ proseguì per scusare la poca creanza del suo uomo ‒ ma ha avuto tante seccature nella vita che s’è fatto un po’ rustico. Appunto come quel giovane che avete veduto qui, il signor Vittorio Mathis. Anche lui, poveretto, non ha fortuna, ed è un giovane molto bene educato, molto colto, di cui la madre, una vedova, ha appena quanto basti per mangiare un pezzo di pane. Si capisce dunque, non è vero? che i guai turbino il loro cervello e che parlino di far saltare in aria il mondo. Per conto mio, queste idee non le ho, ma le compatisco in loro, oh! con tutta l’anima.
Turbato, incuriosito dall’ignoto e dal terribile che intuiva attorno a sè, Pietro non si affrettò a scrivere l’indirizzo, ascoltandola, spingendola alle confidenze.
— Se sapeste, signor abate, la sorte di quel povero Salvat, un trovatello, senza padre, nè madre, che è stato per anni sul lastrico, che ha dovuto fare un po’ di tutti i mestieri per vivere! Col tempo si è messo alla meccanica ed era un buon operaio, ve lo affermo, molto destro e laborioso. Ma aveva già le sue idee, litigava, voleva tirare dalla sua i compagni, per cui non poteva restare in nessun posto. Finalmente, a trent’anni, ha fatto la corbelleria di partire per l’America con un ingegnere che lo ha sfruttato laggiù, a segno che dopo sei anni è tornato infermo e senza un soldo… Devo dirvi che aveva sposato la mia sorella minore Leonia, morta prima della sua partenza per l’America, lasciandogli la piccola Celina che aveva un anno. Io ero con mio marito allora, Teodoro Labitte, un muratore; e non lo dico per vantarmi, ma, per quanto mi rovinassi gli occhi sul cucito, mi picchiava in modo da lasciarmi in terra come morta. Ha finito col piantarmi, prendendo il largo con una giovinetta di vent’anni, il che mi ha fatto più piacere che altro… E, naturalmente, quando Salvat è tornato e mi ha trovata sola con la piccola Celina, che m’aveva affidata partendo, e che mi chiamava mamma, ci siamo messi a vivere insieme per la forza delle circostanze. Non siamo maritati, ma fa lo stesso, non è vero, signor abate?
Era rimasta un po’ confusa però, e riprese, per mostrare che aveva della gente per bene in famiglia:
— Non ho avuto fortuna, io, ma ho un’altra sorella, Ortensia, che ha sposato un impiegato, un certo Chretiennot, che sta in un bell’appartamento del boulevard Rochechouart. Eravamo tre di un secondo letto, Ortensia, l’ultima; Leonia, che è morta, ed io, la maggiore, Paolina. Ed ho anche un fratellastro, Eugenio Toussaint, che ha dieci anni più di me, un meccanico anche lui che lavora, dal tempo della guerra in poi nella stessa casa, l’officina Grandidier, a cento passi da qui, in via Mercadet. Per disgrazia ha avuto un colpo, poco tempo fa… In quanto a me, non ci vedo più, mi sono sciupata gli occhi cucendo delle dieci ore di fila. Adesso non posso fare un rammendo, senza che le lagrime mi appannino la vista. Ho cercato di fare la serva avventizia, ma non trovo più lavoro, la disdetta ci perseguita. E così non abbiamo più nulla, siamo in una miseria completa, senza cibo per due o tre giorni di seguito alle volte, una vitaccia da bestie, che mangia a caso quello che trova, e, con questi ultimi due mesi di freddo intenso, che ci hanno agghiacciato in modo da credere, alle volte, la sera, che non ci si desterebbe più… Come si fa! non sono mai stata felice io, prima percossa, oggi sciupata, abbandonata in un angolo, rimasta al mondo non so perchè.
Le tremava la voce e i suoi occhi rossi si inumidivano, e Pietro sentì che attraversava la vita lagrimando, da brava donna, senza forza di volontà, quasi cancellata già dall’esistenza, accasata senza amore, secondo i capricci della sorte.
— Oh! ‒ riprese ‒ non mi lagno di Salvat. E’ un brav’uomo che sogna la felicità di tutti, e non beve e lavora quando può. Soltanto, questo è sicuro, che, se non si occupasse di politica, lavorerebbe di più. Non si può discutere coi compagni, andare alle adunanze ed al lavoro. Sbaglia in questo, è evidente… Ma ciò non toglie che egli abbia ragione di lamentarsi, perchè ha avuto una disdetta unica: tutti i guai gli sono piovuti addosso, lo hanno schiacciato. Un santo stesso perderebbe la testa, e si capisce che un povero disgraziato come lui finisca col diventare idrofobo… Da due mesi non ha trovato che un uomo pietoso, uno scienziato, che sta lassù, sul poggio, un certo Guglielmo Froment, che gli dà qualche volta del lavoro, tanto da far la minestra.
Molto sorpreso di udire il nome del fratello, Pietro si disponeva a fare alcune domande: poi una sensazione strana, un misto di prudenza e di timore, lo indusse a tacere. Guardò Celina che ascoltava in piedi, davanti a lui, muta, con l’aspetto gracile e serio. E madama Teodora vedendo che sorrideva alla piccina, soggiunse un’ultima riflessione:
— Ecco! E’ sopratutto l’idea di quella bambina che lo mette fuori di sè. L’adora! ammazzerebbe tutti quanti quando la vede andar a letto senza cena. E’ così carina, imparava così bene alla scuola comunale!
Pietro, che aveva finalmente scritto l’indirizzo, fece scivolare uno scudo nelle mani della bambina e per tagliar corto ai ringraziamenti si affrettò a dire:
— Sapete dove trovarmi ora, se aveste bisogno di me per Laveuve. Ma io mi occuperò subito del caso suo e spero che, senz’altro, verranno a prenderlo questa sera.
Madama Teodora non ascoltava, profondendosi in benedizioni, mentre Celina, colpita di trovarsi in mano uno scudo, mormorava:
— Oh! quel povero babbo che è andato a caccia di soldi! Se corressi a dirgli che per oggi c’è da mangiare?
Ed il prete, che era già nell’andito, udì la donna rispondere:
— E’ lontano, se ha sempre camminato… Ma forse tornerà.
Mentre Pietro fuggiva dall’orribile casa dolente, con la testa in fiamme, il cuore invaso di tristezza, ebbe la sorpresa di scorgere Salvat e Vittorio Mathis, fermi in un angolo dell’immondo cortile, nelle esalazioni pestilenziali della cloaca: erano scesi per continuare il colloquio interrotto in casa, e discorrevano di nuovo piano e prestissimo, bocca a bocca, assorti nella foga che schizzava dai loro sguardi; ma udirono i passi, riconobbero l’abate; e fatti improvvisamente freddi e calmi non soggiunsero più parola, scambiando una ruvida stretta di mano. Vittorio risalì verso Montmartre, Salvat esitò, con l’aspetto d’un uomo che consulta il destino. Poi, avviandosi a casaccio, bieco, rizzò la scarna persona da lavoratore stanco ed affamato ed entrando in via Mercadet, mosse verso Parigi, con la borsa sotto il braccio.
Per un attimo, Pietro ebbe l’impulso di corrergli dietro, di gridargli che la sua piccina lo richiamava. Ma si sentì ripreso dallo stesso turbamento di prima: un senso di discrezione, di paura, di sorda persuasione che nulla arresterebbe il destino.
Ed egli stesso aveva perduta la calma, non era più sopito nel gelido annientamento del mattino.
Ritrovandosi fra le nebbie umide della via, era ripreso dalla sua antica febbre di carità che l’aspetto di miserie così inaudite ridestava in lui. No, no! I dolori umani erano troppi; egli voleva continuare la lotta, salvar Laveuve, render un po’ di gioia a quella povera gente.
La nuova esperienza gli s’imponeva in quella Parigi che aveva veduto così velata di cenere, così misteriosa e perturbante sotto la minaccia dell’inevitabile giustizia.
E sognava un sole di fecondità e di salute che facesse dell’immensa città il campo fertile, da cui sorgesse la società più virtuosa del domani.
II.
Quella mattina, come quasi sempre d’altronde, v’era una colazione di intimi in casa Duvillard; pochi amici i quali più che invitati, venivano spontaneamente.
E nella glaciale giornata di umidità e di nebbia, la principesca palazzina di via Godot-de-Mauroy sul boulevard della Maddalena, era fiorita delle corolle più rare, una delle passioni della baronessa che trasmutava le sale alte e sfarzose, piene di meraviglie artistiche, in serre tepide e fragranti, dove la triste luce scialba di Parigi diventava di una dolcezza blanda, infinitamente soave.
Le sale di ricevimento erano a pianterreno e davano sull’ampio cortile, preceduto da un giardino d’inverno, che serviva da atrio vetrato, ed in cui stavano sempre due servitori in livrea verde cupo e oro.
La celebre galleria di quadri, stimata parecchi milioni, occupava tutta l’ala settentrionale.
E lo scalone, celebre anch’esso per sfarzo, metteva all’appartamento abitato di solito dalla famiglia, una sala rossa, un salottino azzurro ed argento, uno studio, dalle pareti rivestite di cuoio antico, una sala da pranzo addobbata di verde pallido e mobiliata all’inglese, tacendo della camera da letto e degli abbigliatoi.
La palazzina, eretta sotto Luigi XIV, serbava una maestà aristocratica, temperata in certo modo ed assoggettata ai gusti voluttuosi della borghesia che da un secolo regnava trionfante, mercè l’onnipotenza moderna dell’oro.
Il mezzodì non era ancora suonato, quando il barone, anticipando contro il solito, entrò pel primo nel salottino azzurro e argento.
Era un uomo sui sessanta, alto e robusto, col naso grosso, le guancie massiccie, la bocca larga, tumida, con zanne di lupo ancora belle. Calvo da poco tempo, si tingeva i capelli, come si radeva la barba, dacchè era diventata bianca. L’audacia ardeva nei suoi occhi grigi, la conquista vibrava nel suo riso. E tutta la sua faccia esprimeva l’autorità di quella conquista, la sovranità del padrone senza scrupoli, che usava ed abusava del potere rubato e serbato dalla sua casta.
Fece alcuni passi, fermandosi nel vano della finestra, vicino ad un mirabile canestro di orchidee. Sul camino, sulla tavola, delle ciocche di mammole diffondevano una fragranza sottile: poi si allungò in uno dei seggioloni di raso azzurro, lamato d’argento, nella soavità soporifica del profumo, nel silenzio tiepido che pioveva dagli addobbi.
Prese un giornale in tasca e si diede a rileggere un articolo, mentre attorno a lui la palazzina tutt’intera evocava la sua immensa ricchezza, la sua possa sovrana, tutta la storia del secolo che lo aveva innalzato al potere.
A diciotto anni, nel 1788, Gerolamo Duvillard, l’avo suo, figlio di un avvocatuccio del Poitou, era venuto a Parigi come scrivano di notaio, ed intelligente, ostinato, cupidissimo, aveva guadagnato i suoi primi tre milioni, prima coll’aggio sui fondi nazionali, poi come fornitore degli eserciti dell’impero.
Suo padre, Gregorio Duvillard, figlio di Gerolamo, nato nel 1805, il vero grand’uomo della famiglia, quegli che aveva regnato pel primo in via Godot-de-Mauroy, dopo aver avuto dal re Luigi Filippo il titolo di barone, restava uno degli eroi della finanza moderna per gli scandalosi guadagni fatti da lui durante la monarchia di luglio e sotto il secondo impero e pei furti celebri delle sue speculazioni, ferrovie, miniere, l’istmo di Suez.
Ed Enrico, nato nel 1836, non si era dato sul serio agli affari che a trentacinque anni, dopo la guerra, alla morte del barone Gregorio, ma con una tal cupidigia che in un quarto di secolo aveva raddoppiato le sue sostanze.
Era il corruttore, il divoratore che deturpava ed inghiottiva tutto ciò che toccava, ed anche il tentatore, il compratore delle coscienze in vendita, avendo egli l’intuito della lotta dei tempi nuovi contro la democrazia affamata ed impaziente dell’oggi. Inferiore al padre ed all’avo, avendo la tara del sensualismo, con un minor istinto di conquista ed una smania maggiore di godimento, era comunque un uomo terribile, un trionfatore epicureo, che operava a colpo sicuro, arraffando dei milioni ad ogni colpo di rastrello, trattando da pari a pari coi Governi ed in grado di mettersi in tasca, se non tutta la Francia, almeno un Ministero.
In un quarto di secolo, in tre generazioni, la sovranità si era incarnata in lui, già minacciata e scossa dalla bufera del domani.
E la sua faccia a volte pareva ingigantisse, diventando la borghesia stessa, quella che nella ripartizione dell’89 ha preso ogni cosa, s’è ingrassata alle spese del quarto Stato e non vuol restituirgli nulla.
L’articolo, che il barone rileggeva in un giornalucolo d’un soldo, lo interessava.
La Voce del Popolo era un foglio chiassoso, il quale, sotto colore di difendere la giustizia, e la moralità offese, bandiva ogni mattina un nuovo scandalo, colla speranza di far salire la tiratura. Quel giorno vi figurava in lettere di scatola il titolo: «L’affare delle Ferrovie africane, un benefizio di cinque milioni, due ministri venduti, trenta deputati e senatori compromessi». Poi il redattore capo, il famoso Sagnier, annunziava, in un articolo odiosamente feroce, che pubblicherebbe la lista dei trentadue parlamentari di cui il barone Duvillard aveva comperate le voci, all’epoca del voto della Camera sulle Ferrovie africane. A queste notizie si associava la storia romanzesca delle avventure di un certo Hunter, oggi latitante, che il barone aveva impiegato come intermediario.
Con la massima calma il barone ricominciava le frasi, pesando ogni parola, e, sebbene fosse solo, si stringeva nelle spalle, parlava forte nella placida sicurezza di un uomo che è al coperto e sa di essere troppo potente perchè lo si possa molestare.
— Che imbecille! Ne sa ancora meno di quanto dice.
Ma giungeva per l’appunto un primo commensale, un giovane sui trentaquattro anni vestito con eleganza, bell’uomo bruno, con occhi ridenti, naso fine, barba e capelli crespi, e qualcosa di sventato, di leggero nel passo, un’aria di uccello. Quel giorno, per eccezione, sembrava nervoso, inquieto, con sorriso studiato.
— Ah! siete voi, Duthil? ‒ disse il barone, alzandosi; ‒ avete letto?
E gli mostrò la Voce del Popolo, che ripiegava per metterla in tasca.
— Ma sì, ho letto… E’ insensato! Come mai Sagnier ha potuto procurarsi la lista dei nomi?… C’è dunque un traditore fra noi?
Il barone lo guardava, pacato, divertendosi della sua ansia segreta. Figlio di un notaio di Angoulême, quasi povero e molto onesto, eletto ancor giovanissimo a deputato, mercè la buona fama del padre, Duthil conduceva a Parigi una vita da gaudente, la vita di ozio e di piaceri già condottavi altre volte quando era studente; ma la sua graziosa garçonnière di via Suresnes, i suoi successi di bel giovine nel vortice di donne in mezzo a cui viveva, gli costavano caro, e si era quindi adattato allegramente, privo com’era di senso morale, a tutte le transazioni, a tutte le decadenze, da uomo leggiero e superiore, da simpatico ragazzo incosciente che non dà nessuna importanza alle bazzecole di questo genere.
— Eh! via! ‒ disse infine il barone; ‒ l’ha poi davvero quella lista, Sagnier? Ne dubito perchè non c’è lista; Hunter non ha certo commesso la balordaggine di farne una. Eppoi, che monta? E’ un affare dei soliti, e non si è fatto che quello che si fa sempre in casi consimili.
Inquieto per la prima volta in vita sua, Duthil lo ascoltava col bisogno di sentirsi assicurato.
— Ah! lo dite anche voi, eh! ‒ esclamò. ‒ Gli è quello che pensavo; non è il caso di fare tanto chiasso.
Procurava di ritrovare la sua allegria non ricordando neppur precisamente come avesse potuto incassare una diecina di mille lire in quell’avventura a titolo di prestito o sotto colore di una pubblicità fittizia, perchè Hunter aveva mostrato una grande scaltrezza nel rispettare il pudore delle coscienze anche le meno verginali.
— No, non è il caso di far tanto chiasso, ‒ ripetè Duvillard, che si divertiva dello sgomento di Duthil. ‒ E, d’altronde, si sa; vi sono certuni che cadono sempre in piedi! Avete veduto Silviana?
— La lascio or ora ed è in furore contro di voi. Ha saputo questa mattina che il suo affare della Commedia era andato in fumo.
All’improvviso una vampa di collera imporporò la faccia del barone. Egli, così calmo, così beffardo poc’anzi di fronte alla minaccia dello scandalo delle Ferrovie africane, perdeva la testa, col sangue acceso, quando si trattava di quella creatura, l’ultima ed imperiosa passione dei suoi sessant’anni.
— Come, in fumo? Se ieri l’altro ancora, alle Belle Arti, mi hanno dato quasi formalmente parola di prenderla?
Quella Silviana d’Aulnay, che fino allora non aveva avuto sulle scene che dei successi di bellezza, si era incapricciata con feroce ostinazione di essere ammessa alla Commedia Francese per esordirvi nella parte di Paolina nel Poliuto, una parte che studiava con accanimento da mesi.
Era una cosa pazza, tutta Parigi ne rideva, perchè la donzella, a quanto si diceva, aveva tutti i vizi, tutti i gusti depravati, era turpemente corrotta.
Ma lei si metteva in mostra orgogliosamente, ed esigeva quella parte, sicura di vincere.
— E’ il ministro che non ha voluto ‒ spiegò Duthil.
Il barone soffocava.
— Il ministro, il ministro oh! lo farò ballare io, quel ministro!
Dovette tacere perchè la baronessa entrava.
A quarantasei anni, era ancora bellissima. Molto, bionda, alta, un po’ grassa, con braccia e spalle mirabili, una pelle di raso senza una tara, si sciupava solo nel viso leggermente avvizzito, invaso da macchie rossastre; e quello era il suo tormento, la sua preoccupazione d’ogni ora.
L’origine israelita si tradiva nel suo volto un po’ lungo, dalla grazia strana, dagli occhi azzurri, di una dolcezza voluttuosa. La baronessa, indolente come una schiava orientale, rifuggendo dal muoversi, dal camminare e persino dal parlare, sembrava fatta per l’harem, per le continue cure della persona. Quel giorno vestiva tutta di bianco, una seta bianca d’una semplicità squisita ed abbagliante.
Duthil la complimentò, le baciò la mano, con fisionomia beata.
— Ah! signora, mi rimettete un po’ di primavera nell’anima. Parigi è così tetro, così fangoso stamane!
Ma giungeva un secondo commensale, un uomo alto e bello dai trentacinque ai trentasei anni, ed il barone agitato dalla sua passione, ne profittò per scappare. Condusse Duthil nel suo studio, che era vicino, dicendo:
— Venite qua un momento, caro amico. Ho ancora una parola da dirvi sull’affare di cui si tratta… Il conte di Quinsac farà compagnia a mia moglie frattanto.
Appena fu sola col nuovo venuto, il quale le aveva, come l’altro commensale, baciata molto rispettosamente la mano, Eva Duvillard lo guardò a lungo, in silenzio, mentre i suoi begli occhi teneri si riempivano di lagrime. Poi, nel silenzio un po’ impacciato che s’era diffuso, finì col dire pianissimo:
— Gerardo mio, come sono felice di trovarmi sola per un momento con voi! E’ più di un mese che non mi date questa gioia!
Il modo con cui Enrico Duvillard aveva sposata la figlia minore di Giusto Steinberg, il ricco banchiere ebreo, era rimasto leggendario.
Come i Rotschild, gli Steinberg erano in origine parecchi fratelli, quattro, Giusto a Parigi, gli altri a Berlino, a Vienna, a Londra, il che dava alla loro associazione segreta una forza formidabile, una sovranità internazionale ed onnipotente sui mercati finanziari d’Europa.
Giusto però era il meno ricco dei tre, ed aveva nel barone Gregorio un avversario terribile, contro cui doveva lottare per tutte le prede più ambite. Era stato appunto in seguito ad uno scontro feroce tra di loro, dopo l’avara ripartizione del bottino, che gli era sòrta l’idea profonda di dare in moglie, per sopra mercato, Eva, la sua figlia minore, al figlio del barone, Enrico. Fin allora, questi era reputato un giovane amabile, uomo di sport e di club, ed il calcolo di Giusto era di mettere, morto che fosse il temuto barone, già condannato, la mano sulla banca rivale ove non avrebbe avuto di fronte che un giovine facile a debellare. Enrico si era acceso per l’appunto di una passione impetuosa per la bionda bellezza di Eva, allora in pieno fiore. L’aveva voluta, ed il padre, che conosceva suo figlio, aveva acconsentito, rallegrandosi molto in fondo del pessimo affare che Giusto faceva.
Diventò infatti disastroso per quest’ultimo, quando Enrico succedendo al padre, l’uomo di preda apparve nel gaudente, ed egli si prese una parte da leone nello sfruttamento degli appetiti scatenati di quella democrazia borghese che giungeva finalmente al potere. Non solo Eva non aveva vinto Enrico, diventato a sua volta il banchiere onnipotente, padrone più che mai del mercato, ma era il barone che aveva vinto Eva, l’aveva annientata in meno di quattro anni.
Dopo aver avuto da lei, l’uno dopo l’altro, un maschio ed una femmina, se ne era stancato all’improvviso, quasi nauseato nella bramosia potente che l’aveva indotto a sposarla, e l’aveva respinta, come si scaglia lontano un frutto di cui si è sazi. Sulle prime, nell’udire che egli era tornato alla vita da celibe e ne amava un’altra, essa era rimasta sorpresa e disperata. Poi, senza recriminazione alcuna, senza ira, senza darsi neppure molte brighe per riconquistarlo, aveva dal canto suo preso un amante. Non poteva vivere senza amare, non pareva nata che per essere bella, piacere, passare la vita tra braccia di adorazione e di carezze.
Serbò per quindici anni l’amante, scelto a venticinque, e gli fu perfettamente fedele, come lo sarebbe stata al marito. La sua morte fu un immenso dolore per lei, una vera vedovanza. Ma, sei mesi dopo, incontrando il conte Gerardo di Quinsac, non seppe resistere al suo bisogno di affetto, e si diede di nuovo.
— Mio caro Gerardo ‒ riprese con fare maternamente carezzevole, notando che il giovane sembrava confuso ‒ vi siete sentito male forse, mi dissimulate qualche dispiacere?
Essa aveva dieci anni più di lui, e si aggrappava disperatamente a questo ultimo amore, adorando quel bel giovane con tutto l’esser suo in ribellione contro la vecchiaia, pronta a lottare per serbarlo ad ogni costo.
— No, non vi dissimulo nulla, ve lo attesto ‒ rispose il conte. ‒ Mia madre mi ha accaparrato molto in questi giorni.
Essa continuava a guardarlo con passione e turbamento, trovandolo così maestoso e nobile d’aspetto, col viso regolare, i baffi ed i capelli neri, tenuti con somma cura.
Uscito da una delle più antiche famiglie di Francia, Quinsac abitava colla madre, vedova e rovinata da un marito avventuroso, in un pianterreno di via San Domenico, dove essa sapeva conservare la dignità del suo grado con quindicimila lire di rendita. Lui non aveva mai lavorato, limitandosi al suo anno di servizio obbligatorio, e rinunziando all’esercito come aveva rinunziato alla carriera diplomatica, la sola che gli fosse aperta. Passava i giorni in quell’ozio così laborioso dei giovani che conducono la vita parigina. E sua madre stessa, benchè d’una severità altera, pareva lo scusasse, anzi trovasse che, sotto la Repubblica, un uomo della sua stirpe dovesse tenersi in disparte per protesta. Ma aveva probabilmente dei motivi d’indulgenza più intimi e più dolorosi. A sette anni aveva corso rischio di perder il figlio per una febbre cerebrale: a diciotto egli si era lagnato di mal di cuore, ed i medici raccomandavano di risparmiarlo in tutto. Essa sapeva che sotto il maestoso aspetto della razza, quell’alta statura, quella presenza superba, si dissimulava la menzogna e che egli non era che cenere, perennemente minacciato dalla malattia e dallo sfacelo, come in fondo alla sua virilità apparente non v’era che una fiacchezza da femmina, da essere debole e buono, capace di tutte le decadenze.
In una visita fatta colla madre, molto pia, all’Asilo degli Invalidi del Lavoro, Gerardo aveva incontrato Eva per la prima volta. Essa lo aveva conquistato con la dedizione ed egli continuava a frequentare la sua casa perchè la trovava ancora desiderabile, e perchè non sapeva come rompere con lei. Sua madre chiudeva gli occhi su quel vincolo colpevole in una società che disprezzava, come li aveva chiusi su tanti altri errori, perdonandogli ogni cosa come ad un bambino infermo. Eva l’aveva anche conquistato con una decisione che aveva fatto stupire il mondo. All’improvviso si era venuti a sapere che monsignor Martha l’aveva convertita al cattolicismo; essa aveva fatto per assicurarsi l’amore d’un amante, quello che non aveva concesso al marito legittimo.
E Parigi era ancora commossa dalla magnificenza con cui si era celebrato, alla Maddalena, il battesimo di quell’ebrea di quarantacinque anni, di cui la bellezza e le lagrime avevano intenerito tutti i cuori.
Quell’atto di immensa tenerezza aveva lusingato Gerardo. Ma cominciava a stancarsi di lei, tentava di rompere, schivando gli appuntamenti, e comprendeva ora quello che essa gli chiedeva con occhi supplici.
— Vi assicuro, ‒ ripeteva, cedendo già, ‒ che mia madre non m’ha lasciato un giorno libero. Naturalmente, sarei stato felicissimo…
Senza una parola, essa continuava ad implorarlo e delle lagrime le brillavano sulle ciglia. Da un mese intero egli non la riceveva più, nella cameretta di via Matignon, in fondo al cortile, dove s’incontravano di solito. E Quinsac buono e fiacco come lei, disperato di quel momento di solitudine in cui lo avevano lasciato, si arrese, incapace di rifiutarsi più a lungo.
— Ebbene! questo dopo pranzo, se vi pare, alle quattro, come al solito.
Parlava a bassa voce, ma un lieve fruscìo gli fece voltar la testa col sussulto di un uomo colto in fallo.
Era Camilla, la figlia della baronessa, che entrava. Non aveva udito, ma dal sorriso dei due amanti, dal fremito stesso dell’aria, aveva compreso ogni cosa: un altro appuntamento, laggiù nella via che sospettava, e per quel giorno stesso. Vi fu un momento d’imbarazzo, uno scambio di sguardi inquieti ed ostili.
A ventitrè anni Camilla era una personcina dal colorito olivastro, quasi deforme per una spalla più alta dell’altra. Non aveva nulla del padre nè della madre, per uno di quei casi impreveduti nell’eredità di una famiglia che vi spingono a domandare con curiosità donde possono risultare. Il suo solo orgoglio erano i begli occhi neri ed i mirabili capelli che, piccina come era, bastavano a vestirla, a quanto diceva. Ma il naso era lungo, la faccia deviava a sinistra, con lineamenti irregolari e lunga bazza. La bocca fine, arguta, maligna, rivelava il rancore segreto, la collera perversa che fervevano in fondo a quell’anima di fanciulla brutta e furente di esserlo.
La creatura che essa abborriva di più al mondo era certamente sua madre, quella innamorata, così poco madre, che non l’aveva mai amata, che non si era mai curata di lei, abbandonandola, fin dalla culla, a mani mercenarie, cosicchè un vero odio era sorto fra le due donne, odio muto e freddo nell’una, attivo ed ardente nell’altra. La figlia odiava la madre perchè la trovava bella e l’accusava di non averla fatta a sua immagine; bella di quella bellezza con cui l’ecclissava. Il suo dolore quotidiano era di non sentirsi desiderata, di accorgersi che tutti i desideri andavano verso sua madre. Siccome era d’una malignità divertente, la si ascoltava, si rideva; soltanto gli sguardi di tutti gli uomini vecchi e giovani, e persino ed anzi quelli dei più giovani, tornavano a quella madre trionfante che non voleva invecchiare. Ed era stato perciò che essa si era decisa, nella sua energia feroce, a portarle via l’ultimo amante, a farsi sposare da Gerardo, di cui la perdita le darebbe un dolore mortale. Grazie ai suoi cinque milioni di dote, i pretendenti non le mancavano; ma poco lusingata, essa soleva dire col suo risolino amaro: ‒ Perdinci! per cinque milioni andrebbero a pigliarsene una alla Salpetrière! ‒ Poi s’era messa ad amar davvero Gerardo, che si mostrava cortese con quella mezza inferma per bontà di cuore. Egli soffriva a vederla così derelitta, si abbandonava a poco a poco alla tenerezza piena di gratitudine che Cornelia gli manifestava, felice l’uomo bello, di essere un Dio, di avere una schiava: e nel suo tentativo di rottura con la madre, di cui l’amore gli pesava, entrava per certo l’idea di lasciarsi sposare dalla figlia, il che era dopo tutto una fine molto lieta, sebbene non lo confessasse ancora, vergognoso, impacciato dal suo nome illustre e da tutte le complicazioni, da tutte le lagrime che prevedeva.
Il silenzio si protraeva. Camilla aveva detto alla madre, col suo sguardo acuto e micidiale come una lama, che sapeva tutto: poi, con un altro sguardo doloroso, aveva rimproverato Gerardo. E questi non trovò che un complimento per ristabilire l’equilibrio fra le due donne:
— Buon giorno, Camilla… Ah! quel vestito avana! E’ strano come i vestiti un po’ scuri vi stanno bene!
Camilla gettò un’occhiata sul vestito bianco della madre, poi guardò il suo vestito scuro che lasciava appena scorgere il collo ed i polsi.
— Sì ‒ rispose ridendo ‒ non sono passabile che quando mi vesto da vecchia.
Eva, a disagio, preoccupata nell’intuire una rivalità a cui non voleva ancora prestar fede, cambiò argomento.
— Tuo fratello non c’è?
— Ma sì, siamo scesi insieme.
Giacinto, che entrava, strinse la mano a Gerardo con fare stanco. Toccava i vent’anni e dalla madre aveva ereditato i chiari capelli biondi, il viso ovale, orientalmente languido, dal padre gli occhi grigi, la bocca tumida su cui si leggevano gli appetiti senza scrupoli. Pessimo studente, aveva deciso di non far nulla, sprezzando del pari tutte le professioni, e, viziato dal padre, si interessava di musica e di poesia, vivendo in una società straordinaria di artisti e di sgualdrine, di pazzi e di banditi, fanfarone di vizi e di delitti anche lui, ostentando il ribrezzo della donna, professando le più perverse idee filosofiche e sociali, andando sempre agli estremi, collettivista, individualista, anarchico, pessimista, simbolista e perfino sodomista, per turno, senza rinunziare a fare il cattolico per suprema correttezza aristocratica.
In fondo non era che vuoto ed un po’ sciocco. In quattro generazioni, il sangue robusto ed affamato dei Duvillard, dopo aver messo al mondo tre belle belve, produceva ora, come esaurito dall’appagamento, quell’androgine abortito, incapace perfino di grandi attentati e di grandi orgie.
Camilla, troppo intelligente per non sentire il vuoto del fratello, lo motteggiava, e riprese, nel vederlo stretto in una lunga redingote a pieghe, una risurrezione romantica che esagerava:
— La mamma ti chiama, Giacinto. Vieni un po’ a farle vedere la tua sottana. Come saresti bello, vestito da donna!
Ma egli si schermì senza rispondere. Aveva una paura segreta della sorella maggiore, sebbene vivessero in una intimità che favoriva le confidenze perverse, dicendosi ogni cosa, tentando invano di farsi stupire a vicenda. E diede un’occhiata di sprezzo al mirabile canestro delle orchidee, moda già antica, abbandonata ai borghesucci. Aveva attraversata la fase dei gigli, apprezzava ora il ranuncolo, il fiore di sangue.
I due ultimi commensali aspettati giunsero là quasi insieme: anzitutto il giudice istruttore Amadieu, intimo di casa, un omuncolo sui quarantacinque, messo in evidenza recentemente da un processo anarchico.
Aveva una faccia piatta e regolare da magistrato, tra basette bionde, faccia che tentava di rendere penetrante mercè un monocolo, dietro a cui il suo occhio schizzava scintille. Molto amante della società, apparteneva alla nuova scuola, e psicologo distinto, autore d’un libro in risposta agli abusi della fisiologia criminalista, ambizioso, innamorato della pubblicità, spiava sempre gli affari rumorosi da cui si può derivare la gloria.
Finalmente apparve il generale di Bozonnet, zio materno di Gerardo, un vecchio alto ed asciutto, dal naso d’aquila, che i reumi avevano costretto da poco a mettersi in disponibilità.
Insignito del grado di colonnello dopo la guerra, in premio del suo nobile contegno a S. Privat, serbava a Napoleone III la fede giurata, sebbene fosse di famiglia e di aderenze monarchiche. Gli condonavano fra i suoi quella specie di bonapartismo militare, per l’amarezza con cui accusava la Repubblica di aver ucciso l’esercito.
Del resto, era un brav’uomo che adorava la sorella, la contessa di Quinsac, e pareva obbedisse ad un desiderio segreto di questa, nell’accettare gli inviti della baronessa, come per rendere più naturale e più scusabile la continua presenza di Gerardo in casa sua.
Frattanto il barone e Duthil tornavano dallo studio ridendo forte di un riso esagerato, probabilmente per farsi credere affatto liberi di spirito.
Ed entrarono in sala da pranzo, dove ardeva un gran fuoco di cui le vampe gioconde splendevano come un raggio di primavera tra i mobili inglesi di mogano chiaro, coperti di cristalli e di argenterie. La sala, di un verde muschio tenero, aveva un fascino languido sotto la luce pallida. Al centro la tavola, colla ricchezza delle posate e la bianchezza delle tovaglie, guarnite di merletti di Venezia, sembrava fiorisse miracolosamente sotto una esuberanza di rose thea, fiori straordinari per la stagione e d’una fragranza squisita.
La baronessa aveva il generale a destra ed Amadieu a sinistra. Il barone tenne a destra Duthil, a sinistra Gerardo. Poi i ragazzi sedettero ai due capi della tavola, Camilla fra il generale e Gerardo, Giacinto fra Duthil ed Amadieu. E subito, fin dalle uova coi tartufi, la conversazione si avviò, allegra e familiare, quella conversazione parigina dell’asciolvere in cui sfilano tutti i fatti grandi e piccoli del giorno precedente e della mattina, le verità come le menzogne di tutti i circoli, lo scandalo finanziario, l’avventura politica, il romanzo appena uscito, la produzione rappresentata, le storielle che non si potrebbero dire che all’orecchio e si raccontano invece ad alta voce.
E sotto la leggerezza del motto spiritoso, sotto le risa che spesso vibrano stonate, ognuno serba la propria tempesta segreta, l’interno sfacelo, un dolore che alle volte giunge fino all’agonia.
Il barone parlò pel primo, audace, con la solita placida impudenza, dell’articolo della Voce del Popolo.
— Dite un po’, avete letto l’articolo di Sagnier? E’ uno dei buoni, ha dello slancio; ma che pazzo pericoloso colui!
Tutti si sentirono sollevati perchè quell’articolo avrebbe oppresso gli animi se nessuno ne avesse fatto motto.
— Siamo daccapo col Panama! ‒ gridò Duthil ‒ Ah! no perdinci, ne abbiamo abbastanza!
— L’affare delle ferrovie africane? ‒ riprese il barone ‒ ma è limpido come l’acqua di sorgente! Tutti quelli che Sagnier minaccia possono dormire i loro sonni tranquilli. E’ un colpo, vedete, per far cadere il ministro Barroux. Domanderanno un’interpellanza or ora, senza dubbio, e si farà un bel chiasso.
— Quella stampa di diffamazione e di scandalo ‒ disse pacatamente Amadieu ‒ è un dissolvente che rovinerà la Francia. Ci vorrebbero delle leggi.
Il generale fece un atto di collera.
— Delle leggi, a che pro? se non hanno il coraggio di applicarle.
Vi fu una pausa. Il maggiordomo, muovendo attorno alla tavola con passo tacito, presentava delle triglie ai ferri. Il servizio era così silenzioso, nella tepida e fragrante aria della sala, che non s’udiva nemmeno un tintinnìo di porcellane.
E frattanto, senza che si potesse sapere perchè, la conversazione era cambiata: una voce chiese:
— E così, si proroga la ripresa della produzione?
— Sì ‒ disse Gerardo ‒ ho saputo questa mattina che il Poliuto non andrà in scena che in aprile, al più presto.
Camilla, muta fino allora, tutt’intenta com’era a riconquistare il giovane, guardò suo padre con occhi lucenti. Si trattava della produzione in cui Silviana si ostinava ad esordire. Ma il barone e sua moglie si serbarono perfettamente sereni, non ignorando più da lungo tempo le loro avventure reciproche. Eva era così felice dell’appuntamento ottenuto! Non pensava ad altro, trovandosi già laggiù colla fantasia, nel nido d’amore, mentre sorrideva automaticamente agli ospiti. Ed il barone era troppo preoccupato delle nuove pratiche che contava fare alle Belle Arti, con impeto sdegnoso, per strappare a viva forza la scrittura.
Si limitò a dire:
— Come volete che rimettano in iscena le produzioni alla Commedia? Non hanno più donne.
— Oh! ‒ riprese placidamente la baronessa ‒ ieri in quella produzione del Vaudeville, Delfina Vignot aveva un vestito squisito, e non c’è nessuno che sappia pettinarsi come lei.