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Giovanni Pascoli ist nicht nur einer der wichtigsten Vertreter der italienischen Literatur, sondern verfasste auch eine ansehnliche Zahl neulateinischer Dichtungen. Die Forschung hat in den letzten Jahren verstärkt herausgearbeitet, dass diese Werke nicht Produkte eines sterilen Klassizismus sind, sondern vom selben Geist poetischer Innovation getragen werden, der auch im italienischsprachigen OEuvre des Autors zu finden ist. Der vorliegende Band geht auf das 19. Symposion NeoLatina in Innsbruck zurück - die erste internationale Tagung, die ausschließlich dem Pascoli Latinus gewidmet war: Sie hat die wissenschaftliche Diskussion über einen der größten modernen Vertreter der neulateinischen Dichtung aus einer gleichsam europäischen Perspektive befördert. Giovanni Pascoli è uno dei poeti più innovativi della letteratura italiana tra Otto e Novecento, nonché uno dei più raffinati e prolifici autori di poesia in latino. Negli anni è emersa la consapevolezza che la musa latina di Pascoli, lungi dal costituire una sorta di attardato classicismo, incarna invece lo stesso spirito di audacia e di innovazione che si riscontra nella produzione italiana del poeta. Questo volume presenta gli atti del 19Grad Symposion NeoLatina, celebrato a Innsbruck. Si è trattato del primo convegno internazionale dedicato esclusivamente al Pascoli latino, che ha sollecitato un fertile dibattito, secondo una prospettiva veramente europea, su uno dei più grandi esponenti della poesia latina di età contemporanea.
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Seitenzahl: 667
Veröffentlichungsjahr: 2022
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Carla Chiummo
Pascoli Latinus
Neue Beiträge zur Edition und Interpretation der neulateinischen Dichtung von Giovanni PascoliNuovi contributi all’edizione e all’interpretazione della poesia latina di Giovanni Pascoli
herausgegeben von / a cura di Carla Chiummo, Wolfgang Kofler und / e Valerio Sanzotta
DOI: https://doi.org/10.24053/9783823392378
© 2022 · Narr Francke Attempto Verlag GmbH + Co. KG
Dischingerweg 5 · D-72070 Tübingen
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Internet: www.narr.deeMail: [email protected]
ISSN 1615-7133
ISBN 978-3-8233-8237-9 (Print)
ISBN 978-3-8233-0323-7 (ePub)
Il successo internazionale, ancor più che nazionale, del Pascoli latino è stato, come è noto, immediato. Grazie ai suoi trionfi al prestigioso Certamen Hoeufftianum di Amsterdam, con il conseguimento di tredici medaglie d’oro e quindici premiazioni con magna laus, e ancor più grazie al riconoscimento, in vita e postumo, della grandezza della sua poesia latina, la vitalità di questo Pascoli non ha mai smesso di stupire, sebbene fino a qualche decennio fa sia stata a volte ricacciata nel cono d’ombra di un attardato classicismo. Eppure, già a inizio Novecento, i suoi più acuti lettori, a cominciare da Renato Serra e poi Giorgio Pasquali, avevano bene inteso l’audacia e l’anticlassicismo radicale di questa poesia.
È un’audacia riconosciuta e confermata sia dai poeti neolatini del Novecento, che hanno dovuto inevitabilmente fare i conti con il nuovo inizio segnato da quella sua poesia, sia dagli studiosi, pur in diversi casi recalcitranti dinanzi al recupero di una lingua ‘morta’ da parte del poeta. In realtà, la novità e complessità poematica di questa sua poesia era già stata suggerita proprio dal suo esemplare saggio, Un poeta di lingua morta, che, celebrando il primo poeta vincitore del Certamen Hoeufftianum, Diego Vitrioli, dava in effetti una interpretazione completamente nuova e affascinante di quella poesia neolatina, aprendo nuove strade anche alla lettura e all’interpretazione del Pascoli italiano. Ogni lingua poetica – scriveva in quel discorso – cerca di ridare vita a ciò che è morto ed è essa stessa sempre una lingua ‘altra’, perché “poesia e religione sono una cosa, e […] come la religione ha bisogno del raccoglimento e del mistero e del silenzio e delle parole che velano e perciò incupiscono il loro significato, delle parole, intendo, estranee all’uso presente, così ne ha bisogno la poesia”.
Tuttavia, il lavoro di commento e studio delle fonti della poesia latina di Pascoli deve necessariamente andare di pari passo con una più puntale ricostruzione filologica, micro e macrotestuale, di quella poesia, che dopo l’edizione del tutto provvisoria dei Carmina a cura di Ermenegildo Pistelli nel 1914, ha visto la risistemazione più rigorosa di Adolfo Gandiglio nel 1930, e infine, nel 1951, quella tuttora ‘vulgata’ e meritoria, ma certo non filologicamente testata, a cura di Manara Valgimigli. Da qui si è ripartiti per singole e preziose edizioni commentate di alcuni dei più rilevanti poemetti latini pascoliani, in prevalenza a cura di Alfonso Traina – del quale resta imprescindibile, tra i suoi tanti interventi illuminanti in questo territorio pascoliano, il Saggio sul latino del Pascoli (1962; edizione definitiva 2006) – e della sua scuola, includendo la Concordanza dei Carmina di Clemente Mazzotta (1999). Ora l’allestimento del ricchissimo archivio online delle carte pascoliane conservate a Castelvecchio – Giovanni Pascoli nello specchio delle sue carte – e il nuovo progetto per l’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli hanno riaperto i cantieri filologici del poeta latino (e greco), anzitutto con il recupero dei testi originali inviati al concorso di Amsterdam: ne sono testimonianza le recenti edizioni critiche del Leucothoe a cura di Vincenzo Fera e del Bellum servile a cura di Francesco Galatà.
Ma negli ultimi decenni l’interesse per questi aspetti filologici e insieme interpretativi ha coinvolto diversi e acuti lettori e studiosi anche fuori d’Italia, e in particolare nel mondo germanico e presso la scuola lovaniense. Da qui il progetto di mettere a confronto queste diverse esperienze e valutare i percorsi specifici insieme a quelli comuni nel territorio filologico e interpretativo del Pascoli latino, peraltro in un peculiare luogo di raccordo geografico-culturale quale Innsbruck, sede dell’Institut für Klassische Philologie und Neulateinische Studien dell’Università di Innsbruck e del Ludwig Boltzmann Institut für Neulateinische Studien, con il fondamentale contributo esterno del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Ne è nato, così, il convegno tenutosi nei giorni 9-10 giugno 2017 quale diciannovesimo appuntamento del Neulateinisches Symposion NeoLatina, e di cui in questa sede si pubblicano gli atti.
Punto di partenza per tutti è stato e resta senz’altro l’intreccio tra aspetto ecdotico ed ermeneutico, senza mai perdere di vista il filtro pascoliano – e quindi assolutamente moderno – delle rivisitazioni della tradizione latina. A ciò si aggiunga l’intreccio indissolubile tra la sua poesia latina e quella italiana e la cifra simbolista e modernissima di questa sua poesia, che non teme di rifondere insieme tradizione classica e ascendenze moderne, non solo letterarie e, come intuì de Saussure, linguistiche (anagrammi, neologismi, pastiche, plurilinguismo, onomatopee), ma anche filosofiche (darwinismo, positivismo, antistoricismo, protopsicanalisi) e scientifiche (botanica, evoluzionismo, antropologia).
Il convegno, che ha potuto beneficiare del patrocinio dell’Accademia Nazionale Pascoliana e dell’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli, non sarebbe stato possibile senza il supporto di molti amici e molte istituzioni. A Stefanie Lechner e alle studentesse collaboratrici va il merito di essersi occupate, con impegno e abnegazione, delle questioni organizzative, come pure a Florian W. Müller, direttore del Museo Archeologico dell’Università di Innsbruck, va tutto il nostro ringraziamento per aver concesso l’uso degli spazi. Per quanto riguarda il volume che ora appare a stampa, l’allestimento e la revisione dei dattiloscritti dei contributi potuto beneficiare della competenza di Katharina Blaas, mentre a Tillmann Bub e allo staff della casa editrice Narr Francke Attempto va la nostra gratitudine per la consueta cura nel processo di stampa. Per il sostegno finanziario è doverosa la riconoscenza nei confronti dell’Università di Innsbruck (Philologisch-Kulturwissenschaftliche Fakultät, Vizerektorat für Forschung, Italien-Zentrum, Universitätspartnerschaft Innsbruck – Freiburg i.Br.), dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale (Dipartimento di Lettere e Filosofia), del Ludwig Boltzmann Institut für Neulateinische Studien e della Stiftung Pegasus St. Gallen.
Un ultimo ringraziamento va a un’illustre personalità di studioso già citata in questa introduzione: Alfonso Traina, che a causa dell’età avanzata non ha potuto partecipare all’incontro del 2017 ed è poi mancato nelle more della preparazione di questo volume, evidente testimonianza, d’altra parte, dell’imprescindibile bagaglio di riflessioni e aperture di interessi, non solo inerenti al Pascoli latino, che Alfonso Traina ci ha lasciato. E a lui, quindi, con somma riconoscenza, dedichiamo questi studi.
Carla Chiummo, Wolfgang Kofler, Valerio Sanzotta
Der internationale Erfolg des Pascoli Latinus stellte sich – wie bekannt ist – unmittelbar ein und übertraf den im eigenen Land. Ausdruck hierfür sind die 13 Goldmedaillen und 15 Magna-laus-Prädikate beim renommierten Certamen Hoeufftianum in Amsterdam sowie die Anerkennung, die dem lateinischen Dichter bereits zu Lebzeiten und postum zuteil wurde. Pascolis lateinische Texte haben nie an Kraft verloren, auch wenn man ihnen bis vor einigen Jahrzehnten immer wieder die Patina eines verspäteten Klassizismus attestierte. Andererseits haben ihre aufmerksamsten Leser und Interpreten bereits zu Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts – wir denken hier an Renato Serra und nach ihm Giorgio Pasquali – den großen Mut zur poetischen Innovation und den radikalen Antiklassizismus erkannt, von dem sie beherrscht werden.
Pascolis Bemühungen, die mit beträchtlichen künstlerischen Risiken einhergingen, fanden ihren Niederschlag bei den ihm nachfolgenden neulateinischen Dichtern, die den von ihm beschrittenen Neuanfang in ihren eigenen Werken nicht ignorieren konnten. Ebenfalls gewürdigt wurden sie von den Philologen, auch wenn die dichterische Wiederbelebung einer „toten“ Sprache zuweilen mit etwas Skepsis quittiert wurde. In Wahrheit hatte Pascoli die komplexen Probleme, die sich aus dieser neuen Art von Dichtung ergaben, bereits selbst angerissen, und zwar in seiner grundlegenden Rede Un poeta di lingua morta, die Diego Vitrioli, dem ersten Sieger des Certamen Hoeufftianum, gewidmet war. In dem Text erfährt der Begriff von neulateinischer Dichtung eine völlig neue Deutung, die auch auf Pascolis italienischsprachiges Schaffen zurückwirkt. Jede poetische Sprache – so der Dichter – versucht etwas wiederzubeleben, was tot ist, und ist immer eine „andere“ Sprache, denn „poesia e religione sono una cosa, e […] come la religione ha bisogno del raccoglimento e del mistero e del silenzio e delle parole che velano e perciò incupiscono il loro significato, delle parole, intendo, estranee all’uso presente, così ne ha bisogno la poesia“.
Die prinzipielle Komplexität des Pascoli Latinus hatte und hat natürlich Auswirkungen auf seine philologische Aufbereitung. Besonders klar ist, dass die Kommentierung der einzelnen Gedichte und das Studium ihrer Quellen Hand in Hand mit einer möglichst präzisen Rekonstruktion des Textes zu gehen haben, wobei sowohl Aspekte auf der Mikro- als auch solche auf der Makroebene berücksichtigt werden müssen. Am Anfang stand hier die weitgehend improvisierte Ausgabe, die Ermenegildo Pistelli im Jahr 1914 vorgelegt hatte. Einen systematischeren Zugang versuchte Adolfo Gandiglio 1930, während wir Manara Valgimigli 1951 eine Vulgata verdanken, die ohne Zweifel große Verdienste hat, strengen philologischen Maßstäben jedoch nicht genügt. In der Zeit danach erschienen Einzelausgaben der wichtigsten lateinischen Gedichte von Pascoli. Diese verdanken wir hauptsächlich Alfonso Traina, der zahlreiche erhellende Beiträge zum lateinischen Pascoli verfasst hat und vor allem Autor des epochemachenden Saggio sul latino del Pascoli (1962; Neuausgabe 2006) ist. Ebenso hat seine Schule, aus der – das sei hier zusätzlich erwähnt – auch die von Clemente Mazzotta 1999 besorgte Konkordanz der Carmina hervorgegangen ist, Bleibendes geleistet. In der letzten Zeit haben besonders zwei Umstände für eine verstärkte Wiederaufnahme der Arbeiten gesorgt, die dem Text des Pascoli Latinus gewidmet sind: Zum einen ging der reichhaltige Dokumenten-Schatz des Archivs in Castelvecchio online (Giovanni Pascoli nello specchio delle sue carte), zum anderen wurde die Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli ins Leben gerufen. Ebenfalls erfreulich ist, dass nun auch die Originalversionen der Gedichte zur Verfügung stehen, die Pascoli zum Amsterdamer Wettbewerb geschickt hatte. Welchen Gewinn man aus ihnen ziehen kann, beweisen unter anderem die kritischen Ausgaben der Leucothoe und des Bellum servile, die Vincenzo Fera bzw. Francesco Galatà vor kurzem besorgt haben.
Das Interesse an der philologischen Erschließung und Deutung der neulateinischen Gedichte von Pascoli hat in den letzten Jahren aber auch außerhalb von Italien erkennbar zugenommen. Hier sind vor allem Forscher aus den deutschsprachigen Ländern und die Schule von Löwen zu nennen. Diese Internationalisierung der Forschungen zum Pascoli Latinus legte es nahe, länderspezifische und -übergreifende Zugänge sowohl als Bilanz als auch als Gelegenheit zur gegenseitigen Bereicherung im Rahmen einer Tagung zusammenzuführen, die als 19. Ausgabe des Neulateinischen Symposions Neolatina vom 9. bis 10. Juni 2017 in Innsbruck stattfand und deren Beiträge in dem vorliegenden Band versammelt sind. Innsbruck eignete sich nicht nur deshalb als Veranstaltungsort, weil Tirol seit jeher eine wichtige deutsch-italienische Kontaktzone darstellt. Es ist auch Sitz des die Neolatinität seit Jahren intensiv beforschenden Instituts für Klassische Philologie und Neulateinische Studien der Universität Innsbruck und des Ludwig Boltzmann Instituts für Neulateinische Studien. Für das Gelingen der Tagung erwies es sich auch als günstig, dass das Dipartimento di Lettere e Filosofia der Universität Cassino als externer und strategischer Partner gewonnen werden konnte.
Inhaltlicher und methodischer Ausgangspunkt der Tagung waren zweifellos die Schnittflächen zwischen Edition und Interpretation. Besondere Aufmerksamkeit wurde dabei Pascolis Wahrnehmung und Umgestaltung der lateinischen Tradition geschenkt. Bei dieser Gelegenheit zeigte es sich einmal mehr, dass seine neulateinische und italienische Dichtung untrennbar miteinander verbunden sind. Verantwortlich hierfür ist vor allem die symbolistische Dimension der Texte, in der klassisches Erbe und Moderne miteinander verschmelzen, und zwar nicht auf der Ebene der literarischen Motive und – wie bereits de Saussure erkannt hat – der Sprache (Anagramme, Neologismen, pastiche, mehrsprachige Effekte, Lautmalereien), sondern auch vor dem Hintergrund verschiedener Diskurse aus Philosophie (Darwinismus, Positivismus, Antihistorismus, Proto-Psychoanalyse) und Naturwissenschaft (Botanik, Evolutionslehre, Anthropologie).
Die Tagung, auf der diese vielfältigen Erkenntnisse vertieft wurden, und der Band, der nun der Öffentlichkeit vorliegt, konnten nur realisiert werden, weil viele Freunde und Institutionen uns zur Seite gestanden sind. Ihnen allen sei hier gedankt! Die Accademia Nazionale Pascoliana und die Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Pascoli haben das Symposion unter ihre Schirmherrschaft gestellt. Um die organisatorischen Belange der Tagung haben sich Frau Stefanie Lechner und unsere StudienassistentInnen mit großem Einsatz gekümmert, die Räumlichkeiten wurden vom Archäologischen Museum der Universität Innsbruck und seinem Leiter Florian W. Müller zur Verfügung gestellt. Die Aufbereitung der Manuskripte war bei Katharina Blaas in besten Händen, Herr Tillmann Bub vom Narr Francke Attempto-Verlag und seine MitarbeiterInnen haben die Drucklegung mit der üblichen Fürsorge begleitet. Großzügige finanzielle Förderungen haben wir von der Universität Innsbruck (Philologisch-Kulturwissenschaftliche Fakultät, Vizerektorat für Forschung, Italien-Zentrum, Universitätspartnerschaft Innsbruck–Freiburg i.Br.), der Universität Cassino (Dipartimento di Lettere e Filosofia), dem Ludwig Boltzmann Institut für Neulateinische Studien und der Stiftung Pegasus St. Gallen halten.
Der letzte Dank gilt einem Mann, den wir in dieser Einleitung schon einmal genannt haben: Alfonso Traina. Aufgrund seines fortgeschrittenen Alters konnte er – obwohl er gerne gekommen wäre – an unserer Tagung nicht mehr teilnehmen und ist dann verstorben, während wir diese Akten vorbereitet haben. In ihnen lebt der große Gelehrte aber ein wenig weiter, denn sie enthalten kaum eine Seite, die nicht von seinen immensen Verdiensten um Pascoli – und zwar nicht nur den lateinischen – profitiert hätte. Deshalb sei ihm dieses Buch auch gewidmet.
Carla Chiummo, Wolfgang Kofler, Valerio Sanzotta
FFFior da fiore
L’Appendix pascoliana di Traina e Paradisi è uno strumento prezioso che consente di leggere gli iniziali esperimenti poetici pascoliani e ci fa capire che il primo vero movimento di poesia latina si dispiega sullo scrittoio del poeta a Matera.1 Il latino dell’adolescenza urbinate profuma di Regia Parnassi e rigurgita di reminiscenze classiche: il normale apprendimento nell’ambito di una tradizionale ratio studiorum. Si è talvolta enfatizzato il contatto con padre Giuseppe Giacoletti, un veterano del concorso di Amsterdam. In verità, quando vinse la prima medaglia d’oro, Pascoli scriveva al fratello Raffaele, cui confidava i suoi più segreti pensieri, parlando di Giacoletti in termini molto confusi:
quest’anno mandai a un concorso olandese annuale e mondiale un poemetto latino fatto (sai che non mi vanto io) in cinque giorni. Ieri ho ricevuto un telegramma: Veianius (è il titolo del poemetto) remporta le prix. È una grande gioia per me e forse è il principio di lasciare quest’arrangolata vitaccia liceale – da 40 ore alla settimana – e pagato poco. In Italia quel premio l’ebbe una trentina d’anni fa Diego Vitrioli, anche prima di lui (ma non il vero premio) il padre Giacoletti delle S.P. Ti ricordi? È cosa che farà parlar di me in Italia e fuori. Ma accogliamo con moderazione la fortuna, come sopportammo la disgrazia: sarà meglio. Ma non posso tacere che il nome del nostro Babbo sarà glorificato.2
Quanto qui il poeta confida a Falino fa comprendere che le sue informazioni sul vecchio prete sono del tutto incerte: addirittura nei ricordi la sua figura si colloca cronologicamente anche prima di Vitrioli ed egli non dimostra di sapere che il padre aveva davvero conseguito una medaglia d’oro parecchi anni dopo il latinista di Reggio. Questo è in contrasto con i ricordi del sacerdote fissati nella commemorazione di Diego Vitrioli del giugno 1898 presso l’Accademia Peloritana di Messina3 e con quanto affermato in una postilla a un articolo di Sorbelli del 1912 pubblicato sulla rivista “Italia”, nella quale il Pascoli ‘ricordava’ di aver visto, lui settenne, sul feretro di Giacoletti a Urbino «rifulgere quella medaglia tenuta allora in religioso onore».4 I modi con cui nella commemorazione è tratteggiata la figura di Giacoletti, con l’esplicito richiamo a fra Galdino che concionava su padre Cristoforo, fanno sospettare che quanto qui e altrove si dice del venerabile Scolopio sia piuttosto un fine cesello letterario. Il ragazzo Pascoli non deve aver avuto con Giacoletti un rapporto particolare e personale, e tutto quello che a distanza di decenni avrebbe riferito doveva derivare da ricordi e racconti di amici di Urbino che lo avevano più profondamente conosciuto. Non credo si debba parlare di falso: è piuttosto un modo intenso da parte del Pascoli di volersi collegare a una tradizione di affetti e di sentimenti mai sopiti. Per la sua poesia latina egli non ha contratto debiti con nessuno, almeno a livello della testura poetica; sul piano tecnico deve molto, come già detto, alla scuola urbinate (ricordo in particolare l’insegnamento di Geronte Cei5).
I momenti più salienti dell’attività di Pascoli a Matera sono stati di recente illustrati da Francesco Galatà:6 a predominare è certamente il filone della traduzione artistica, in versi italiani dalle lingue classiche, in versi latini e greci da prose italiane; un fitto esercizio, che non necessariamente doveva sfociare in direzione della poesia latina, ma che poteva costituire fertile humus per quella italiana. Si deve a ragioni contingenti infatti se Pascoli decise di investire così tante energie nell’ambito della produzione poetica latina. Senza il Certamen Hoeufftianum, che assegnava al vincitore un cospicuo premio in oro e nell’Italia dell’epoca era portatore di straordinario prestigio tra le élites degli intellettuali,7 è facile il sospetto che Pascoli non si sarebbe immesso con così forte tensione in questi circuiti: è in virtù del certame olandese che il giovane professore del Liceo lucano decide di fare poesia in latino. Il 30 dicembre del 1883, così raccontava a Falino:
all’ultimo dell’anno ho pensato di far qualchecosa per il concorso Hoefftiano di Amsterdam.8 In quattro o cinque giorni ho sciupato un magnifico tema, un soggetto così indovinato così poetico che piacerebbe anche a te. L’ho strozzato infimemente: figurati che di 150 esametri, che è tutta la poesia, 90 li ho fatti in un giorno e in una notte: ma a ogni modo volevo che potesse giungere in tempo. Non ho nemmeno riletto il manoscritto – E: non l’ho potuto raccomandare perché l’ufficio delle raccomandate non era più aperto; e se tardavo, non arrivava a tempo ad Amsterdam. Ora o la poesia si perde o arrivata è giudicata per quel che vale; ossia un lavoro affrettato che non val9 nulla. Vedi che ho sprecato il ranno e il sapone.10
Il carme non è neppure nominato né egli indugia sul soggetto, pur dicendo tante cose sulle circostanze in cui esso è stato pensato, scritto e spedito. Si tratta ovviamente di Leucothoe, la cui memoria è stata tenuta viva nella letteratura pascoliana da Adolfo Gandiglio11 e soprattutto da Alfonso Traina,12 e che, considerato perduto, è ritornato dagli archivi di Haarlem in tutto il suo acerbo splendore, a un secolo esatto dalla morte del poeta.13 Il febbrile immergersi nello scorcio di fine anno in composizioni latine (qui documentato per il primo poemetto) sarà il paradigma costante delle ultime settimane di dicembre a partire dal 1891. Il poemetto non fu apprezzato dai giudici, che consigliarono a Pascoli di applicarsi nella lettura delle Metamorfosi, perché il «carmen ab elegantia parum commendatur».14 È innegabile che nel componimento ci siano durezze; è ugualmente vero tuttavia che il carme non si affidava alla semplice cura formale, cui tendevano indistintamente quanti allora coltivavano la lingua del Lazio, ma voleva essere una proposta di poesia. La cornice del poemetto e i suoi presupposti mitologici e letterari erano comunque così complessi che i giudici potrebbero non aver colto pienamente la dinamica artistica che si sviluppava dal lavoro.
Quando con l’aiuto del suo maestro Carducci Pascoli giungeva a Matera, era ancora sotto il fascio di emozioni che gli aveva procurato l’elaborazione della sua tesi di laurea su Alceo.15 Il giovane poeta era tutto orientato sul versante del greco, soprattutto della poesia greca arcaica. Già il 5 ottobre del 1883 scriveva a Carducci: «avrei bisogno dell’edizione grande del Bergk»:16 egli aveva infatti a disposizione, come è noto, l’Anthologia lyrica ma non ancora i Poetae lyrici Graeci.17 Il Bergk, nelle sue varie edizioni, con la selva immensa di frammenti lirici che racchiudeva, fu un libro destinato ad accompagnare Pascoli per tutta la vita; da esso si dipanava un filo di poesia che avrebbe interagito lentamente e in modo sempre più fecondo con la sensibilità del giovane romagnolo.
La Grecia che Pascoli si lasciava alle spalle a Bologna era quella del Carducci, rispetto alla quale egli marcava le distanze; perché nell’opera del suo grande maestro la dimensione ellenica era affidata a monumentalità esterna: nella celebre lirica Cerilo, ad esempio, Carducci fa entrare sulla scena Alcmane per istruire il coro e ne traduce il famoso frammento del κηρύλος, l’uccello purpureo nunzio di primavera.18 Una fruizione aperta e solare, alla continua ricerca di emblemi, a volte folgoranti ma sempre superficiali. Pascoli si accostava invece alla grecità dall’interno del sistema linguistico, metrico e letterario, con un’intensità che certamente era estranea a Carducci. Perché egli riusciva a dare vita ai frammenti lirici consustanziandoli quasi con le pieghe dei suoi pensieri, non isolandoli con esaltanti citazioni. Un episodio riconducibile a quegli anni. La canzone per l’anarchica russa Iessie Helfmann concepita, come ha chiarito Galatà, nel marzo-aprile del 1881, incastona tacitamente al suo interno il fr. 95 Bergk (= 104V) di Saffo ϝέσπερε, πάντα φέρων, ὅσα φαινόλις ἐσκέδασ’ αὔως, ma ne capovolge lo spazio operativo, modificando il ruolo di Espero: «Nulla di ciò che disperdea l’aurora / Espero a te raccoglie».19 L’esempio caratterizza molto bene il porsi di Pascoli davanti ai frammenti: non in atteggiamento filologico, metodologia cui in fondo si atteneva Carducci, ma con la gioiosa partecipazione di chi si sentiva parte dell’ingranaggio e riusciva a penetrare in un grande reliquiario di poesia, per riproporre con disinvoltura vecchie idee e immagini su nuovi spartiti emozionali.
Come oggi sempre più andiamo scoprendo, la continua incalzante progettualità è stata il segno peculiare dell’attività del Pascoli per tutta la vita; gli elenchi di opere da realizzare che continuamente occhieggiano dalle sue carte sono una guida per noi infallibile nella sua multiforme ricerca. Solo un elenco di lavori artistici è stato finora ricondotto a Matera, nel quale siamo certi che non si esaurisce tutto l’impegno creativo dispiegato in quegli anni. Una linea produttiva di poesia, tra le più pronunciate, è infatti quella che si richiama alla cornice delle Eee: il poemetto Leucothoe recuperato a Haarlem nel 2012 reca l’inscriptio «Ex Psychogeneseos libro III qui inscribitur Eoeae» e un gruppo di 18 esametri scoperti nell’archivio pascoliano da Francesco Citti e pubblicati su “Lexis” nel 2014 dal titolo «Ex Psychogeneseos libro IV qui inscribitur Eoeae fragmentum»20 sono quanto conosciamo del progetto sulle Eee perseguito da Pascoli in terra di Lucania. Sul fragmentum avremo modo di tornare.
La Psicogenesi è sicuramente una provincia tutta pascoliana che il poeta associa alla cornice delle Eee. Di essa restano tracce nell’archivio che si riferiscono all’evocazione «di un’era primitiva e primordiale», agli eventi dell’evoluzione del cosmo e degli elementi primigeni. A essa Pascoli fa riferimento anche per un progetto poetico su Empedocle.21 Le Eee, il Catalogo delle donne di Esiodo, erano nell’età di Pascoli assai meno conosciute rispetto a oggi, in quanto i maggiori incrementi papiracei si sono avuti nel Novecento.22 A disposizione del poeta dovette esserci l’edizione Hesiodi carmina di Carolus Goettlingius, del 1848, con i fragmenta (a Castelvecchio è conservata, secondo il catalogo del sito, la terza edizione curata da Iohannes Flach nel 187423), ma quanto allora si sapeva fu sufficiente per attivare la sua progettualità artistica. Ogni Eea cominciava con ἢ οἵη, ‘o quale’: l’insieme configurava una catena di vicende mitiche esemplari. Nell’edizione Flach la Teogonia si concludeva al v. 964, con l’addio agli dei, alle isole e ai continenti (ὑμεῖς μὲν νῦν χαίρετ᾽, Ὀλύμπια δώματ᾽ ἔχοντες, / νῆσοι τ᾽ ἤπειροί τε καὶ ἁλμυρὸς ἔνδοθι πόντος), cui faceva seguito un verso conclusivo che segnava il passaggio ad altro canto, simile a quelli che si trovano talvolta alla fine degli inni omerici.24 Seguiva nell’edizione l’ultima sezione della Teogonia con il titolo Unhesiodischer Anhang (965-1022), dove si canta delle dee immortali che unitesi con uomini generarono figli simili agli dei.
Eee doveva essere per Pascoli un’indicazione progettuale di un ciclo di carmi, del tutto simile alle tante cornici delle quali nelle carte del poeta è rimasto il nudo nome, per cui noi in molti casi non sappiamo come sostanziarlo: basti pensare per limitarci al periodo lucano agli Eidyllia, ai Flosculi, alle Epistolae, agli Echi, alle Melodie, o ancora al più antico Detriti.27 L’unico riscontro teorico che è stato possibile rintracciare è in un quaderno del periodo messinese (fig. 1): in vista dei Poemi Conviviali Pascoli aveva cominciato a ricercare con grande cura argomenti che presentassero i connotati di Eee; quale fosse per lui in quel particolare momento la dinamica di espansione del tema è chiaramente indicato in una sua corsiva annotazione:
G.73.3.1.92 (particolare)
Eee. Queste. Concetto. Voglio raccontare di persone che videro dei – che noi non vediamo – ci sono sì, o cose inaccessibili, il mondo di là etc. etc., o quale. O quale uscì dalla città.28
La ricerca si tradusse nella selezione di numerosi soggetti, accanto ai quali mise il contrassegno «O quale»: ad esempio accanto a I morti nel Fedone, Licaone, Le cagne dell’Hade, etc., a tutta una serie di proposte compositive che necessitano di dettagliate spiegazioni, fin dove possibile.29
L’appunto sulle Eee è stato scritto quasi certamente dopo l’ottobre del 1896, quando venne pubblicato su “Vita italiana” il primo dei poemi di Ate dedicato a Mecisteo di Gorgo, qui citato nell’incipit «O quale uscì dalla città» (Ate 1). A quasi tre lustri di distanza dalle Eee di Matera l’idea originaria ha subìto non pochi cambiamenti, duttilmente indirizzandosi verso zone in cui più incisivamente poteva essere colto il rapporto tra umano e divino, tra storia e mito. Nella cinta aurorale di Leucothoe e del fragmentum la zona operativa sembra circoscritta a un particolare periodo della storia dell’uomo e della terra, interpretata con gli occhi incantati di un greco arcaico. Il concetto di Eee sviluppato nei Conviviali attraverso le storie di Ate, Myrrhine e Glauco, si presenta invece con uno spettro molto più ampio. Nei Poemi la ricerca si sposta verso zone archetipiche, quali la reazione dell’assassino davanti all’omicidio, dell’etera morta che insegue invano nell’aldilà le larve dei suoi bimbi abortiti con in mano i fiori delle ree cicute, del figlio ribelle che percuote e fa morire la madre.30 Siamo evidentemente al di fuori delle Eee quali ci sono note dal Catalogo delle donne, di cui si mantiene solo la struttura esterna.
Con le antiche Eee le nuove conservano per Pascoli la lucida meraviglia davanti all’ignoto e l’inatteso scioglimento degli eventi lungo i poli che spesso si intersecano di vita e morte, amore e odio: in Leucothoe e nel fragmentum è la più precoce intuizione della poetica del fanciullino, l’effigie di una società primordiale, quando il cielo e la terra erano giovani, dove i colori sono più vividi, quasi corporei, e i suoni più che del registro acustico fanno parte di quello dell’anima, i desideri sono cocenti e immediati, tutto è governato dal fato.
Torniamo al fragmentum, di incerta interpretazione. Citti pensa che esso sia una versione primitiva di Leucothoe, ma forse, alla luce di nuovi elementi, il problema della sua genesi può essere riconsiderato.
L’immagine (ACP G.74.3.7,23: fig. 2) fa capire che si tratta di una copia in pulito, sulla quale, come di consueto, l’autore si è impegnato a ritoccare qua e là i versi; elemento cui bisogna dare un senso è il .VI. a cifre romane, sicuramente autografo, che fa parte integrante del documento. Questo vuol dire che prima di questo fragmentum ci dovevano essere almeno 5 componimenti di contenuto analogo, non sappiamo se tutti inscritti nelle Eee, o sempre provenienti dalla Psychogenesis. Di essi poteva far parte anche Leucothoe. Mi pare importante sottolineare la pregnanza nel titolo della parola fragmentum. Nella lunga frequenza della poesia greca Pascoli aveva imparato a convivere con gli apospasmata, i fragmenta, che costituivano pur nella loro frequente brevità la trama portante di larga parte della poesia greca. In questo ambito le Eee erano le misere reliquie del naufragio della poesia epico-catalogica. Ma questa poesia frammentaria, quasi sempre di oscuro o dubbio contesto, aveva una straordinaria potenzialità evocativa e comunicativa: erano testi che necessitavano di opportuna e calibrata esegesi, e che rimanevano spesso ermetici, ma di un ermetismo capace di suggestionare, interagendo con gli strati profondi della psiche. Per il cercatore di tracce di poesia, un ichneuta di immagini, questi frammenti non potevano essere chiusi nel recinto della filologia, ma si proponevano come libero prepotente canale di comunicazione artistica. Tutto da studiare l’influsso di questa frastagliata ala di poesia sulla produzione italiana del Pascoli, soprattutto in Myricae. Dietro Leucothoe e il fragmentum si cela evidentemente il progetto artistico di richiamare in vita un genere letterario perduto, per ricostruirlo non da filologo ma da poeta, recuperando l’aura smarrita della primordialità. Di quella atmosfera primitiva sono restaurati gli ambienti e i modi di percezione della realtà da parte degli esseri umani.
Il fragmentum mette in luce il passaggio degli uomini dal nomadismo al primo insediamento, e indugia sul loro sgomento al sentire per la prima volta il rumore del mare, o i sibili dei boschi sotto l’impeto di tempeste ignote, o al veder verdeggiare le messi sulla terra nera; selve vergini dove divinità straniere lasciano orme e dove si possono scorgere le driadi con i loro arcani sussurri, in un silenzio lunare ritmato dal lontano ovattato uggiolio dei cani. Il fragmentum si colloca sicuramente dopo Leucothoe, perché in esso confluiscono non solo il tratto descrittivo della preistorica stanzialità (vv. 1-5), evidentemente ripreso dal poemetto, ma anche due importanti spezzoni rifiutati dal Pascoli in fase elaborativa e rimasti confinati nei fogli dell’avantesto. Qui di seguito la dimostrazione:
G.74.3.7.23
I prelievi da Leucothoe sono evidenti e tutti opportunamente rintracciati da Citti: in particolare in rapporto ai vv. 4-5 del fragmentum il confronto coi vv. 19-20 del poemetto «serius ut tandem statuisti tecta laresque / ardua per deserta vagis erroribus actos»;31 mentre Leucothoe disegna la storia di un clan, quello di Creteo e di Canace, il frammento vuole avvolgere in un piccolo fascio di luce poetica alcuni aspetti di vita dei primi homines. Non ci sono problemi per le ripetizioni di concetti e di versi: Pascoli vedeva nella formularità omerica ed esiodea una caratteristica essenziale della poesia arcaica, dalla quale sarebbe discesa tanta formularità presente nei Conviviali. Indizi che il fragmentum sia stato pensato nell’ambito della cornice di poesia primordiale probabilmente nei primi mesi del 1884, dopo cioè la spedizione di Leucothoe ad Amsterdam, si possono desumere dall’esame di alcune carte dell’avantesto del poemetto: in ACP G.71.4.5,7b si legge in rapporto ai versi 9-11 del fragmentum:
Quid ferat hoc, Creteu, oculis quod vidimus ipsis [Creteu è su Canaces]
insolitas nigra tellure virescere messes?
Quippe alienorum premimus vestigia divum [sotto Quippe parola non leggibile, forse Eia; var. Nempe]
Cosa potrebbe annunziare, Creteo, quel che abbiamo visto coi nostri stessi occhi,
verdeggiare insolite messi sulla nera terra?
Certo calpestiamo le orme di dei stranieri.
Analogamente per i vv. 10-15 occorre considerare la testura dei versi uniti da un tratto di penna curvilineo in ACP G.71.4.5,7a:
Quae driades saltus implent nymphaeque susurro
et nulla temptata etiam nemora alta securi.
Quippe quae circum silvas lustrante Diana
vix taceant pleno quum sidere luna renidet
et procul ambiguo taciturna silentia rumpunt
interdum clamore canes; at naidas usque
fontibus audires tempus sermone morantes.
Quali driadi e ninfe riempiono di sussurri le balze
e i boschi profondi mai toccati da scure.
Certo quelle che, mentre Diana si aggira per le selve,
tacciano appena, quando la luna risplende con l’astro intero,
e lontano di tanto in tanto col velato latrare gli immensi
silenzi rompono i cani; ma di continuo potresti ascoltare
le naiadi che nelle fonti si attardano col loro parlottio.
In questa fase redazionale di Leucothoe, i due inserti sono funzionali all’interno del discorso con cui Canace svela a Creteo la sua inattesa e soprannaturale maternità; nel passaggio al fragmentum essi perdono ogni specificità per incardinarsi nella varia griglia della sensibilità umana per i fenomeni naturali acutamente avvertiti nella prima stagione del mondo. Non è possibile indugiare sulle variegate tecniche di adattamento cui i versi sono stati sottoposti: tra l’altro l’eliminazione nel penultimo esametro del verbo reggente audires a favore di adsiduo potrebbe mirare all’aumento della precarietà del periodo, ammiccare cioè ancor più all’idea di fragmentum. Viene il sospetto che questo sia nato proprio perché Pascoli non voleva perdere i due brani, scartati perché ritenuti ingombranti nell’economia strutturale del poemetto, e proprio per preservarli con le caratteristiche originarie ha dovuto ricreare per essi la stessa cornice di Leucothoe (a 1-4 il fragmentum si avvia sviluppando Leucothoe 48).
Dall’archivio pascoliano sono emersi nuovi documenti che aiutano ulteriormente a definire il contesto culturale. Francesco Galatà mi segnala un quaderno, ACP G.74.3.6, con pezzi di prosa dove si respira la stessa aria primordiale che circola nel fragmentum. Difficile stabilire subito con precisione la natura di queste carte, l’origine, la destinazione. Ma certo lascia dubbiosi quanto Maria afferma nella fascetta di condizionamento:
Questo deve essere un lavoretto dettato da Giovannino o a un compagno o a suo fratello Luigi in collegio quando era malato, cioè del 1° anno di liceo 1871. Luigi, che era di 3.a liceale, l’aiutava ora copiandogli i lavori in pulito, ora scrivendoglieli sotto dettatura. Ma è di Giovannino. M.P.
Vedi anche articolo de La Rassegna scolastica, Anno I° 15 novembre 1895 (G.74.3.6.1).32
In effetti le carte non sembrano autografe di Giovanni, ma la datazione assegnata da Maria al 1871, primo anno di liceo, non corrisponde né alla tipologia dei contenuti, che rinviano a una conoscenza della letteratura greca già ben consolidata ed esperta, né alla lingua variegata e appropriata con cui i testi sono costruiti.33 Galatà34 pensa che il quaderno sia da ascrivere al laboratorio critico attivo tra l’ultimo periodo bolognese e quello materano e che si tratti di un primo progetto di lavoro sulla favola, e sul comportamento degli animali in letteratura, evolutosi negli studi presenti nelle carte di ACP G.74.3.7, pubblicate di recente da Francesco Citti (tra le quali si conserva il fragmentum dalle Eee).35
La temperie culturale e artistica del fragmentum (e in qualche misura anche quella di Leucothoe) si ritrova in alcuni brani di questo antico studio, che necessiterebbe di energiche cure esegetiche; qui basti dire che centrale è per chi scrive la prospettiva dei rapporti tra animali e uomini, in una riflessione che coinvolge l’Iliade e la Batracomyomachia.36 I brani di seguito riportati sono certamente variazioni redazionali di uno stesso testo, ancora in fieri; li pubblico così come si susseguono nel quaderno dal momento che i particolari sono molto diversi e perciò concorrono a dettagliare meglio il pensiero del Pascoli. Da essi emerge la circolarità della cultura artistica del poeta all’epoca di Matera, quando, come è già stato indicato,37 lo studio della letteratura si intrecciava inestricabilmente con la passione per le Muse:
G 74.3.6.2-3
Le naiadi parlottavano tutta notte ne’ fonti, le potenti Nereidi piangevano e ululavano in cadenza nel mare, le driadi ora bisbigliavano ora garrivano tra le frasche, come succede delle donne che due fanno un mercato: e, a quando a quando, dal monte alla valle si davano certi lunghi e quasi lamentosi richiami. Da per tutto quei primi uomini dubitavano di poter incontrare un dio. Un dio poteva essere il forestiere che si sedeva nell’atrio sulla cenere del focolare; un dio persino, il guerriero che vi si presentava innanzi a combattere. Non era male perciò assicurarsi un poco. E chi sei tu, ottimo degli uomini mortali? ché non t’ho veduto altra volta nella battaglia che dà gloria agli eroi: ma eccoti andare avanti, e di molto, a gli altri tutti, colla tua bravaria perché aspettasti la mia lancia che, vedi, la lunga ombra che fa. Oh! Quelli che mi si pongono tra i piedi sono figli di infelice. Se invece sei venuto dal cielo, e sei qualcuno degli immortali, sappi allora che non vorrei mettermi cogli Dei celesti. Così dice Diomede di Tideo a Glauco d’Ippoloco; e questi gli risponde: a ché ne stai domandando l’origine? Come è la vita delle foglie così è quella degli stessi eroi. Le foglie, ora il vento le sparge a terra, ora altre la selva, rigermogliando, ne produce rinette quando sopravviene la stagione di primavera. Così la vita degli uomini. Si nasce, e si muore.38
V.39 Così anche, o pressappoco, sulla riva di uno stagno domandò a un topo, che vi beveva, un ranocchio che era uscito dall’acqua a curiosare. Non rispose peraltro così, come Glauco, modestamente Psicharpax, ché tale era il nome del topo; sebbene tra il discorso di questi e di quegli c’è della somiglianza. Perché il topo anche lui comincia a ché ne stava domandando l’origine sì ma per seguitare: la sanno tutti, uomini dei e pennati del cielo, e dice del padre mangiaprosciutti e della madre leccamacine, come l’altro di Bellerofonte; e parla della sua casata, de’ suoi desinari; de’ suoi desinari specialmente, come egli….40
Ma non di rodere parla Glauco, o d’un poco dilettevole rodere, dove di Bellerofonte narra che, quando anche lui era venuto in uggia a tutti gli dei, allora vagava solo solo per la pianura Aleia mangiandosi il cuore, schivando le orme degli uomini.41 Eppure non solo il tono, per dir così, del discorso del sorcio è una festevole imitazione dei discorsi eroici; ma anche l’argomento scende da quelli. Sapete come in Omero si dichiara meglio la natura di chi è mortale, in opposizione a quella degli immortali? Così: βροτοὶ οἳ ἀρούρης καρπὸν ἔδουσιν.42 Nessuna meraviglia quindi se un topo eroe, che in fin in fine è un topo, si distenda su questo argomento del pappare e del rodere, quando di lì si possono congetturare cose tanto importanti della nostra condizione e qualità.
A distanza di qualche carta (imm. 8), dopo aver ricordato le guerre causate dalle donne e dal topo («senza poi contare che un’altra delle reginelle, Ione, fa nel mito il suo viaggio per mare, non già su nave nessuna, ma guazzando paurosamente alla meglio, cambiata in vitella. Ma di ciò basti che ben diversa ventura ebbero il topo e le donne, sebbene cagioni poi di guerra l’uno e le altre»), il testo continua allargando e approfondendo quanto messo a fuoco nel precedente paragrafo:
G 74.3.6.8-9
VI. La qual guerra ho già detto che a’ tempi di Aristofane forse non era stata ancora guerreggiata; eppure il poeta, chi che egli sia, la mette più su, molto più su, ne’ tempi belli, quando gli uomini dubitavano [corr. su temevano] di vedere dei da per tutto. Gli uomini, venuti di quà e di là, non ancor fermi, nuovi del paese, si guardavano attorno con sospetto e meraviglia. Ne’ boschi che non avevano ancora sentita la scure era tutto un frascheggiare43 di driadi; come succede delle donne, che le due fanno un mercato. Tacevano appena quando, ne’ pleniluni sereni scendeva Diana44 maestosa e tranquilla a cacciare. Allora lassù nel cielo le altre stelle si giravano addietro e nascondevano la faccia raggiante, come dice Saffo, per invidia forse o per riverenza.45 Ma le naiadi parlottavano tutta notte ne’ fonti delle gran cose che loro toccava vedere,46 e le ninfe pianegiane davano di quando in quando lunghi e quasi lamentosi richiami alle ninfe montanine. Nei meriggi poi gli uomini dentro, tappati nelle capanne, ché per la campagna potevano imbattersi in Pan, e in quell’ora l’incontro era pericoloso, ché imbroncito e stracco della caccia come era guai a chi gli si faceva innanzi47. Nella montagna, poi bazzicavano i centauri, e di mezzogiorno andavano a bere alle fiumane48, ed erano a temersi più dei fauni stessi, sgarbati anche loro [corr. su anch’essi], e con piedi di bestie, ma in fine non erano quattro. Poi c’erano certi luoghi (sex etiam aut septem loca vidi reddere voce<s>, unam cum iaceres49) che davi una voce, gettavi un grido, e da tutte le parti lo ti rimbalzava, in aria di scherno, un sei o sette volte, che, per un poco di tempo era tutto uno schiamazzare. E chi poteva essere? S’accostavano al mare e si dovea tornare addietro, chè là, presso la spiaggia, erano venute a galla le Nereidi, bianche come la spuma con certi veli verdolini, e facevano non so che corrotto, di non so che sciagura, guaivano, urlavano, gemevano, ché doveva essere ben grande e[d] volevano venire a terra che a terra era avvenuta.50
Or dunque bisognava in quei paesi ignoti squadrare bene tra gli occhi con chi s’aveva a fare. Quel [corr. su Il] bell’uomo, del color del terriccio, che era sceso dal mare a terra, e veniva, chi sapeva di dove?, era poi un uomo? – Quell’altro che trovavate in casa, seduto sul focolare, tra la cenere, e piangeva più che non pregasse era forse quel mendico che si pareva? – Quell’altro che vi si piantava innanzi pronto a combattere; e allora ne andava di mezzo la vita; non poteva essere un dio?
I luoghi trascritti potranno essere in pieno valorizzati e compresi solo quando sarà chiarita nei dettagli la loro origine e la loro funzione, con agganci precisi non solo ai testi sottesi, ma anche alla bibliografia certamente attiva in questa impegnata decrittazione di pagine esemplari del mito e dell’antica poesia greca. Ho il sospetto infatti che questo giro di idee e di pensieri non consegni un tratto originale della ricerca pascoliana, mentre si raccomandano come sue la testura e la cifra stilistica. Più in generale, come già detto, i brani fanno capire di cosa si nutrisse la poesia pascoliana durante il soggiorno al Liceo Duni, e quanto fosse largo lo spettro emozionale che movimentava Leucothoe.
Alla dinamica culturale ed emozionale delle Eee sembra ricondurre anche Bessomachos, un epillio sulla figura di Garibaldi. Resta solo un tormentato frammento d’avantesto del poemetto, di circa 14 esametri con vari spezzoni di elaborazione molto incerta, autorevolmente editi da Vittorio Citti.51 La parola ‘rapsodia’ usata da Pascoli per definire la composizione potrebbe avere un risvolto anche tecnico, alla luce del fatto che i versi sono una rielaborazione creativa di alcuni segmenti del discorso tenuto dal Carducci il 4 giugno 1882 per la scomparsa dell’eroe.52 Mi sembra però riduttivo definire Bessomachos un centone omerico: Omero è onnipresente nei pochi versi ma non non è fonte unica.53 La commemorazione carducciana recava in sé un immenso potenziale immaginifico e artistico, che influì molto sul giovane romagnolo. Già gli stessi dati genealogici forniti da Carducci, secondo cui l’eroe era nato «da un antico dio della patria mescolatosi in amore con una fata del settentrione», e la descrizione della morte nel perimetro del catasterismos («dicono fosse assunto ai Concilii degli Dei della patria», «le molecole che furono il corpo dell’eroe andranno disperse nell’aure, tendendo a ricongiungersi con il Sole, di cui egli fu su questa terra italiana la più benefica e splendida emanazione») avranno potuto indirizzare Pascoli alla creazione di un testo inscrivibile nello stesso cerchio ideativo delle Eee. Manca del tutto l’incipit del poemetto, ma quel che a me preme sottolineare è la sostanziale compresenza nel primo poemetto pascoliano e in Bessomachos di alcuni significativi elementi strutturali: ad esempio alla genealogia rinvia l’incipit esametrico τὸν τέκε μὲν testimoniato da Valgimigli, con cui difficilmente poteva cominciare l’epillio, così come il v. 18 del poemetto latino (Leucothoe peperit, Cretheu, pia quam tibi coniunx); ancora: si crede che Garibaldi sia stato dopo la morte assunto tra gli dei immortali (τόν γέ φασιν ληφθῆναι ἐν ἀθανάτοισι θέοισι [sic]), così come Leucothoe in pelago vitam fertur sortita deorum. Interessante è anche la figura del pastore che viene introdotto nei due poemi con diversa funzionalità ma analoga forza retorica: in Leucothoe il pastore ascolta il canto delle fanciulle e le scambia per ninfe campestri; in Bessomachos il ποιμήν | ἀλλοδαπὸς all’apparire di Garibaldi si fa cogliere da stupore: καί μιν τρόμος ἔλλαβεν54. Io non credo che tutta la dinamica di Bessomachos sia racchiusa nell’orizzonte di Matera: lì, nello straordinario clima che si era formato al Liceo Duni, il rifacimento in esametri del discorso carducciano dovette prendere forma, come si può desumere da vari indizi, ma Pascoli, come lui stesso avrebbe raccontato nel 1906, era stato travolto da indicibile emozione nell’ascoltare al teatro Duse di Bologna direttamente dalla bocca del suo maestro l’orazione funebre a soli due giorni dalla morte dell’eroe, «poco prima di partirne per insegnare agli altri».55 Una notizia particolarmente importante, perché proprio quel discorso potrebbe aver sollecitato la definizione della progettualità delle Eee.
Dopo Matera non saprei annodare altri fili significativi di poesia latina fino al 1891: sei anni importanti per la poesia italiana, caratterizzati dal forte rapporto con Severino. Le ragioni di questa eclissi sono ancora da indagare. La leggenda domestica ha espunto dalla biografia culturale di Pascoli l’episodio di Leucothoe: egli non avrebbe mai saputo che fine avesse fatto il poemetto inviato in Olanda, e in famiglia si favoleggiò di un plico partito dalla Lucania con indirizzo sbagliato e mai probabilmente giunto a destinazione. È legittimo avere qualche dubbio. Il programma del Certamen era piuttosto diffuso in Italia presso biblioteche e scuole, per cui viene difficile credere che Pascoli non abbia avuto la curiosità di cercare il risultato della gara del 1883. Proprio la lettura della relazione dei giudici e anche la percezione di quale fosse la tipologia di carmina prediletta dagli Olandesi potrebbero aver sollecitato un ripensamento delle ragioni di una moderna poesia latina. In questi anni egli matura il definitivo abbandono delle plaghe eteree della grecità arcaica, patrimonio generoso della sua giovinezza di studio, in direzione di un nuovo campo di lavoro, non pù divino ed eroico, ma calato nella storia dell’uomo, che ugualmente aveva radici nella vita universitaria della sua Bologna socialista: il mondo degli schiavi e degli umili dell’antica Roma.
Nel 1873, quando Giovanni Pascoli vinse una delle sei borse di studio messe a concorso per la Facoltà di Lettere e Filosofia dall’Università di Bologna, Giosue Carducci era immerso in piena atmosfera alcaica. Poeta forte, civile e libero, si riconosceva perfettamente nell’antico poeta greco. L’anno precedente aveva pubblicato Primavere elleniche, dove Alceo «dal plettro d’oro»1 era al centro della prima (Eolia) con il suo inno ad Apollo, ma ritornava anche nella parte conclusiva della seconda (Dorica): «Se fossi Alceo». Come novello Alceo egli si era presentato già in Juvenilia del 1858, e in Giambi ed epodi (2, 17), per l’anniversario della repubblica francese, nel 1870, intonava:
Vino e ferro vogl’io come a’ begli anni
Alceo chiedea nel cantico immortal:
Il ferro per uccidere i tiranni,
Il vin per festeggiarne il funeral.
Ancora in Levia gravia 2, 29 (del 1871, per il trasporto delle reliquie di Foscolo in Santa Croce), è Alceo che tra i «verdi elisi», insieme con Omero e Saffo, accoglie Foscolo, condotto per mano da Dante, parlando con lui «d’armi e d’amor». E Fantasia di Odi barbare, nel 1875, si chiudeva con il ritorno a Lesbo del poeta-soldato.2
È questo il retroterra che spiega bene la comparsa di Alceo in una saffica giovanile di Pascoli (ritrovata fra le carte Schinetti), dal titolo Lesbo:
O giardini di Lesbo, o Mitilene
Sonante d’arpe nelle calde sere.
Là tra flutti mordenti, aure serene,
Là tra Muse, tra etere,
Parlar del torso d’un fiorente atleta
Che in Olimpia ammirammo e giudicare
L’ultim’ode d’Alceo! Par che ripeta
Quei versi il cielo e il mare.3
Non meraviglia dunque che ad Alceo sia dedicata la tesi di laurea,4 giunta a compimento nel 1882; la commissione era costituita, insieme con Carducci, da Giovanni Battista Gandino e Gaetano Pelliccioni (era proprio lui il grecista, del quale non è noto però particolare interesse per la poesia lirica).5 Nell’ateneo bolognese l’argomento non poteva certo essere assegnato senza il favore di Carducci, dal quale è anzi credibile sia giunta al Pascoli sollecitazione verso il progetto. Alla dissertazione fu attribuita la lode,6 ma i giudizi, anche di persone a Giovanni molto vicine, non sarebbero stati positivi. Sono note le parole di Valgimigli 1965, 198: «Ricerche filologiche nessuna;7 analisi più propriamente critiche nemmeno». Drastico Degani 1988, 129: «una divagazione di nessuna consistenza». Caputo 1988 definisce invece il lavoro «manufatto fragile e sperimentale e provvisorio d’un misterioso cantiere ove comincia a fiorire segretamente un mondo fantastico d’eccezione, a delinearsi una poetica nuova» (p. 15; cf. p. 22, dove si legge come questa prosa giovanile «troppo spesso così sciatta e incolore» diventa «a tratti miracolosamente poetica e quant’altra mai musicale»). E Capovilla 2000, 27, afferma che nelle traduzioni (in prosa) dei testi di Alceo «la sicurezza del traduttore si associa alla sensibilità e alle predilezioni tematiche del poeta: il che avviene con particolare evidenza nella conclusione del lavoro».
Segno evidente di scarsa considerazione è il fatto che il lavoro fu pubblicato per intero soltanto a distanza di oltre un secolo, a cura di Giuseppe Caputo (solo la seconda parte era stata anticipata da Vicinelli nel 1962, con grande libertà e molti errori); è riproposto da Guido Capovilla (1988, 172-187) e infine da Giovanni Capecchi nel volume di Prose disperse (2004, 79-96, con una pagina di «Note al testo»). Entrambi si limitano a ristampare il testo pubblicato da Caputo, giurista dotato di grande sensibilità letteraria, come risulta dall’introduzione, ma non filologica, con la conseguenza di scarsa affidabilità.
Per dare un’idea, mi limito a pochi esempi. È maldestro il taglio di una citazione di Terpandro:
Terpandro, sebbene molto avesse imparato di nuovo dalle melodie asiatiche, pure anche più aveva conservato dell’antica sapienza musicale ellenica: poiché il suo ritmo spondaico è un ritorno al più antico ritmo greco, del quale il dattilico fu uno svolgimento. E così il suo principio d’inno: «Giove condottiero di tutto, inizio di tutto, Giove a te libo»8 quest’inizio d’inno rende anche più delle invocazioni omeriche l’immagine degli antichissimi canti pelasgici che suonarono in Dodona9 tra le sacre querce squillanti pei bronzi appesi (pp. 30-31 Caputo).
Il frammento terpandreo citato (1 Bergk) si conclude non dopo ‘libo’, ma con l’oggetto del verbo, «quest’inizio d’inno» (Pascoli isola il testo della citazione con due punti collocati prima e dopo). Nel testo vulgato, troviamo poi numerosi aggettivi deformati, come ‘stasiotiche’ in ‘stasistiche’ (p. 44, e altrove), ‘marzie’ in ‘maezie’ (p. 39); il titolo ‘Margeites’ diventa ‘Margeistes’ (p. 35); ‘le piote’ di Pittaco ‘piste’ (p. 50); nella nota 16 troviamo ‘Flor.’ invece di ‘Hor.’ (Horatius), nelle note 17 e 18 l’abbreviazione ‘Rhet.’ (per ‘Rhetorica’) diventa ‘Ahet’. Frequente poi la deformazione di nomi (p. 27-28: ‘Anglione’ per ‘Ornytione’, ‘Melkerte’ per ‘Melkarte’, ‘Osellio’ per ‘Aetlio’); nell’ultimo capitolo, p. 49, il nome ‘Nebucadnesar’ è riportato alla forma per noi usuale ‘Nabucodonosor’; ma il testo di cui Pascoli si serviva per questa fonte da lui stesso citata in nota (Ier. 46, 2), ancora conservato nella biblioteca di Castelvecchio, è La Sacra Bibbia ossia L’Antico e il Nuovo Testamento, tradotti da G. Diodati (Londra 1859): ivi il nome nella forma ‘Nebucadnesar’. Altra banalizzazione a p. 50, dove si stampa «quest’ultimo e riposato periodo della sua vita»: Pascoli utilizzava invece ‘periodo’ come femminile, secondo il genere greco mantenuto sino all’Ottocento, scrivendo «quest’ultima e riposata periodo».
Sto lavorando perciò a una nuova edizione, con il commento necessario a chiarire ogni particolare di questo lavoro, che non offre risultati apprezzabili sul piano scientifico, ma è fondamentale per ricostruire la formazione culturale del giovane Pascoli e per definire il suo rapporto con la poesia greca.
In questo compito sono preziosi, come sempre avviene per Pascoli, i materiali dell’archivio, con appunti preparatori e redazioni diverse. Nel fascicolo ACP G.81.3.7 («Quaderno con appunti di letteratura greca e latina»), il nome Fulvius Ursinus, in testa, è seguito dal titolo «Carmina novem illustrium foeminarum | Sapphus» (il volume in cui Fulvio Orsini, nel 1568, aveva raccolto i frammenti delle poetesse greche, comprendeva quelli dei poeti lirici e altro). Immediatamente dopo, materiali alcaici, a partire dalla testimonianza di «Porphyr. apud Euseb. X 3 praeparat.» relativa ad Alceo come poeta di giambi ed epigrammi; la frase che segue, esprimente il dubbio che Eusebio, nella Praeparatio Evangelica, confondesse l’Alceo di Lesbo con l’omonimo autore di epigrammi («Nisi Eusebius hunc Alcaeum Lesbium confudit cum altero iuniore επιγραμματογράφῳ – huius nominis»), si trova, identica, nella Bibliotheca Graeca del Fabricius.10 Così anche gli altri contenuti di questa pagina di appunti, come di quella successiva. Sembra chiaro perciò che sia questa la fonte.11 Da qui deriva ancora, nella stessa pagina di ACP G.81.3.7,1, la sezione sulle immagini di Alceo («Alcaei effigies»), e in 1-2 quella su «Altri Alcei» (Avus Herculis, Tragicus Atheniensis, epigrammatum scriptor, etc.): di tutto questo nulla nella tesi.
Nel quaderno, a 9 è molto interessante un «Prospetto del lavora [sic] sulla lirica di Lesbo o | Cicis e Psappha»: per il primo libro, dedicato al «tipo ideale di Saffo» nelle varie epoche, si prevedono otto capitoli:
C. I. Il tipo ideale di Saffo nel medio evo.
C II. Il tipo ideale di Saffo nelle varie epoche letterarie | d’Italia, di Francia, di Germania d’Inghilterra, di Spagna.
C III. Il tipo ideale di Saffo a’ nostri tempi:
C IV. Da che era derivato? – Il tipo di Saffo all’epoca bizantina,
C V. Il tipo di Saffo all’epoca romana
C VI. Il tipo di Saffo all’epoca alessandrina
C VII. Aristotele, Platone, etc etc.
C. VIII. Solone e contemporanei.
Otto capitoli anche per il libro secondo, che non ha titolo (accanto a «Libro II.», ma leggermente più in alto, sembra si possa leggere «La critica rispose in merito: che novità?»):
C. I. Caratteri della razza eolica
II. Loro dialetto
III. Loro paesi
IV. Loro tradizioni
V. Loro storia
VI. La musica greca antichissima
VII. Poemi omerici
VIII. Metrica
Sul margine destro, accanto a C. I, si legge «Passim dalla storia | le-» (il riferimento deve andare al capitolo tredicesimo dell’Histoire de la littérature grecque di Müller 18662: La poésie lyrique des Eoliens); seguono, in relazione a C. II (dialetto), Ahrens, Boeck [sic], Giese etc. Bergk. Bopp;12 per C. IV (tradizioni), la History of Greece di George Grote (su cui infra, 46). Fonti storico-geografiche relativamente a C. III (Strabone, Pausania),13 musicali e metriche per C. VI e VIII (S. Agostino, Plutarco, Efestione, Aristosseno);14 ancora Boeckh (fondamentale fu il suo