Giro di vite - Henry James - E-Book

Giro di vite E-Book

Henry James

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Beschreibung

Apparso in dodici puntate nella rivista "Collier's Weekly" dal 27 gennaio al 16 aprile 1898, Giro di vite è uno dei capisaldi dell'opera di Henry James, quello forse che ha ottenuto più attenzione sia da parte della critica che da parte del pubblico. Ispirato da una storia di fantasmi narrata allo scrittore dall'arcivescovo di Canterbury Edward White Benson, questo romanzo breve narra la vicenda di due bambini affidati alla servitù di una vecchia villa di campagna dove avvengono sconcertanti apparizioni. L'atmosfera di un Male incombente è resa ancor più intollerabile dall'ambientazione quasi pastorale e dal senso di pace e luminosità che questa sembra irradiare tutt'attorno. Il terrore che scaturisce da tale contrasto è di natura psicologica, nasce dalla mente del narratore più che dalla descrizione dei fatti: sottile e modernissimo espediente che anticipa la sperimentazione letteraria del Novecento.

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Henry James

GIRO DI VITE

ISBN 979-12-5971-973-7

Greenbooks editore

Edizione digitale

Novembre 2021

www.greenbooks-editore.com

ISBN: 979-12-5971-973-7
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Index

GIRO DI VITE

GIRO DI VITE

Il racconto ci aveva tenuti col sospiro sospeso attorno al focolare; ma non ricordo che venisse commentato – eccezion fatta per l’evidente osservazione che era sinistro come è essenziale sia una storia strana, narrata nella vigilia di Natale in una vecchia casa – prima che qualcuno insinuasse che, a memoria sua, era il solo caso in cui una simile prova fosse stata subíta da un fanciullo. Ricordo che, nel caso in discorso, si trattava d’una visione, in una vecchia casa simile a quella nella quale eravamo riuniti, orribile visione apparsa ad un bambino, che dormiva nella camera della madre. Atterrito, la destava; e la madre, prima di riuscire a dissipare il terrore del figlioletto e a riaddormentarlo, veniva essa pure a trovarsi, improvvisamente, davanti allo spettacolo che lo aveva sconvolto. Questa osservazione, non subito ma un po’ più oltre nella serata, determinò una certa replica di Douglas, donde derivò la interessante conseguenza, sulla quale richiamo la vostra attenzione. Un altro dei presenti cominciò a narrare una storia priva di particolare interesse, e notai che non l’ascoltava. Compresi subito che egli pure aveva qualche cosa da dire: non c’era che attendere. In realtà, dovemmo aspettare per due sere successive, benché quella stessa sera, prima che ci separassimo, ci rivelasse quanto lo preoccupava.
— Convengo, tanto a proposito del fantasma di Griffin quanto di un altro qualsiasi, che la storia ha un sapore tutto suo per il fatto che il fantasma è prima apparso ad un fanciullo in così tenera età. Ma, per quello che ne so io, non è la prima volta che un esempio di questo genere delizioso si riferisce ad un bambino. Se questo fanciullo dà un giro di vite di più alla vostra emozione, che direste di due?...
— Diremmo – replicò uno – che, naturalmente, due bambini danno due giri! vogliamo sapere che cosa sia loro accaduto.
Vedo ancora Douglas: si era alzato in piedi, e, appoggiato al camino, con le mani in tasca, guardava l’interlocutore dall’alto al basso:
— Sino ad ora, soltanto io l’ho saputo. È troppo orribile.
Spontaneamente, parecchi dichiararono allora che questo orribile dava al caso un interesse supremo. L’amico nostro, preparandosi con pacata arte un trionfo, girò gli occhi su noi, e proseguì:
— È superiore ad ogni imaginazione, e nulla conosco che vi si avvicini.
— Come effetto di terrore? – chiesi io.
Parve voler dire che il fatto non era così semplice, ma che non poteva trovar termini esatti per esprimersi. Si passò le mani sugli occhi e accennò una smorfia dolorosa:
— Come orrore... Orribile!
— Oh, delizioso! – esclamò una signora.
Non parve udire: mi guardava, ma come se al posto mio vedesse la cosa di cui parlava.
— Come un insieme di laidezza, di dolore e d’orrore soprannaturali.
— Ebbene – gli dissi allora, – sedete e incominciate.
Si voltò verso il fuoco, respinse un tizzone col piede e lo contemplò per un momento. Poi, ritornando a noi:
— Non posso incominciare. Bisognerà che mandi in città.
Queste parole furono accolte da un generale sussurro, accompagnato da molte rimostranze. Quindi spiegò, preoccupato:
— La storia è scritta, e il manoscritto si trova in un cassetto chiuso a chiave: da anni non n’è stato tratto fuori; ma potrei dar disposizioni al mio domestico e mandargli la chiave: mi spedirà il piego come si trova.
Sembrava rivolgermi personalmente la proposta, sembrava... quasi implorare il mio aiuto per finirla con le proprie esitazioni. Ruppe lo spessore del ghiaccio che tanti inverni avevano accumulato; intime ragioni gli avevano fatto serbare quel lungo silenzio. Gli altri si dispiacevano del ritardo; ma io ero deliziato dagli stessi suoi scrupoli. Lo scongiurai di scrivere col primo corriere, d’accordarsi con noi per una sollecita lettura, e gli chiesi anche se l’esperienza della quale si parlava fosse un’esperienza sua propria.
— No, la Dio mercé! – rispose subito.
— E il racconto è vostro? Lo avete scritto personalmente?
— Ho notato soltanto la mia impressione, e l’ho annotata qui... – e si toccò il cuore. – Non l’ho dimenticata.
— Ma il vostro manoscritto, allora?
— L’inchiostro con cui è scritto è vecchio e impallidito... la calligrafia ammirevole. – Anzi che rispondere, girava ancora attorno all’argomento: – È una calligrafia di donna, d’una donna morta da venti anni. In punto di morte, mi ha mandato quelle pagine.
Ora ascoltavamo tutti, e, naturalmente, qualcuno cercò di scherzare o, piuttosto, di trarre da quelle parole l’inevitabile conseguenza. Ma se Douglas negò la conseguenza senza sorridere, non dimostrò tuttavia irritazione di sorta.
— Era una donna deliziosa, ma dieci anni più anziana di me: era l’istitutrice di mia sorella, – disse lentamente. – Non mi è mai capitato d’incontrare, in quella posizione, donna più piacevole: era degna d’occuparne non importa quale altra. È passato molto tempo, e l’episodio che ci interessa s’era verificato già molti anni prima. Io ero allora a Trinity, e la trovai in casa, quando vi tornai per le vacanze, durante il secondo anno di collegio. Quell’anno rimasi a lungo in famiglia: fu un’annata splendida; ricordo i giri che facevamo in giardino e le conversazioni nelle sue ore di libertà, conversazioni nelle quali mi appariva così intelligente e così piacevole! Ma sì, vi prego di non sorridere; ella mi piaceva molto, e sono, oggi ancora, contento che io pure le piacessi. Se non le fossi piaciuto, non mi avrebbe raccontata la storia, che non aveva mai narrata a nessuno. Né lo credevo soltanto perché me lo diceva: ero certo che non ne aveva mai detto nulla. Ne ero sicuro: lo si vedeva. Capirete perché, quando mi avrete ascoltato.
— Perché il fatto l’aveva troppo sconvolta?
Egli continuò a guardarmi fissamente:
— Capirete subito, – ripeté. – Voi, capirete.
Mi posi, a mia volta, a guardarlo fissamente.
— Capisco: era innamorata.
Rise, allora, per la prima volta.
— Ah! come siete perspicace! sì, era innamorata, o, meglio, la era stata. Era evidente: non poteva raccontar la storia senza che la cosa apparisse lampante. Me ne accorsi, ed ella capì che me ne accorgevo; ma non ne parlammo. Ricordo il tempo e il luogo, la fine del prato, l’ombra dei grandi faggi ed i lunghi e caldi pomeriggi estivi. Non era un ambiente tragico – ma...!
Si allontanò dal fuoco e ricadde a sedere.
— Riceverete il piego giovedì mattina? – gli domandai.
— Non prima del secondo corriere, probabilmente.
— No? Allora, dopo pranzo...
— Vi ritroverò tutti qui?
E, nuovamente, il suo sguardo si posava su ciascuno di noi.
— Nessuno parte?
Disse queste parole quasi con un tono di speranza.
— Tutti vogliono restare!
— Io rimango... e io rimango!... – esclamarono alcune signore, che avevano preannunciata la propria partenza. La signora Griffin, però, disse che desiderava alcuni schiarimenti:
— Di chi era innamorata?
— Ve lo dirà il racconto – m’arrischiai a rispondere.
— Oh! non voglio aspettare il racconto!
— E quello non lo dirà – riprese Douglas. – Per lo meno, non lo dirà in modo letterale e volgare.
— Allora, me ne spiace, perché è l’unico modo col quale io comprenda le cose.
— Ma non ce lo direte voi, Douglas? – chiese un altro di noi.
Egli si alzò bruscamente.
— Sì, domani. Ora, bisogna che vada a coricarmi. Buona notte!
E, prendendo il candeliere, ci piantò in asso, leggermente stupefatti. Dal fondo dell’ampio atrio dai rivestimenti severi, in cui eravamo riuniti, ne udimmo decrescere i passi sulla scala. Allora, la signora Griffin disse:
— Ebbene, se non so di chi ella fosse innamorata, so perfettamente di chi egli lo era!
— Ma ella aveva dieci anni più di lui – osservò il marito.
— Raison de plus ... a quell’età!... Il suo lungo silenzio, però, è davvero cavalleresco!
— Quarant’anni – osservò brevemente Griffin.
— E la sua esplosione finale.
— L’esplosione – replicai – farà della serata di giovedì qualche cosa di formidabile.
Furono talmente d’accordo con me che nulla più riuscì ad interessarci. Quella storia di Griffin, per quanto incompleta fosse, con quel suo andamento di prologo destinato a incitare la nostra curiosità, fu l’ultima della serata. Ci stringemmo le mani, e furon «strette di candeliere», come alcuni dissero, e andammo a coricarci.
Seppi il giorno dopo che una lettera, contenente la chiave, era stata spedita col primo corriere all’indirizzo dell’appartamento di Londra. Ma, a dispetto – o, forse, proprio a causa – della susseguente diffusione di questa notizia, lasciammo tranquillo Douglas nel modo più assoluto sino a dopo pranzo, sino all’ora, in somma, più indicata per il genere d’emozione che ricercavamo. Egli divenne allora comunicativo quanto potevamo desiderare, e ci disse persino la ragione eccellente che aveva per esserlo. Ne raccogliemmo la parola nell’atrio, davanti al fuoco, nello stesso luogo in cui, la sera prima, s’eran destati i nostri ingenui stupori. Risultò che il racconto, che ci aveva promesso di leggere, per essere compreso aveva bisogno di alcune parole d’introduzione. Mi sia permesso di dir nettamente qui, per non doverci ritornar sopra, che questa narrazione, da me esattamente trascritta molto tempo dopo, è quella che leggerete fra poco. Quando fu prossimo alla fine, il povero Douglas mi consegnò quel manoscritto, che aveva richiesto, e che gli era pervenuto tre giorni dopo. Ne cominciò la lettura l’indomani sera, nella stessa cornice già descritta, e l’effetto, sul nostro piccolo circolo, sospeso alle sue labbra, fu prodigioso. Le signore, che avevano dichiarato di rimanere, naturalmente non restarono. Grazie a Dio! Partirono, obbligate a rispettare gli impegni anteriori, e ardenti di una curiosità, che assicuravano essere dovuta ai particolari con i quali già ci aveva sovreccitati. Il piccolo uditorio finale divenne così più intimo e più scelto, stretto attorno al focolare in una medesima attesa d’appassionata emozione.
Dal primo di quegli interessanti particolari avevamo saputo che il racconto del manoscritto cominciava quando la storia, in realtà, s’era già iniziata. Per comprenderla bisognava sapere come la vecchia amica, istitutrice di sua sorella, v’era stata mischiata. Era la figlia minore d’un povero pastore di campagna, e, a vent’anni, iniziava l’insegnamento, quando un bel giorno si decise ad andare di gran fretta a Londra, aderendo all’invito dell’autore di un annunzio, cui ella aveva già brevemente risposto. Per presentarsi a questo padrone in potenza, ella si recò in una casa di Harley Street, che le parve vasta e imponente, dove venne ricevuta da un perfetto gentiluomo, uno scapolo nel fior dell’età, un tipo, in somma, quale mai, tranne in un sogno o in un romanzo d’altri tempi, avrebbe potuto apparire ad una timida ed ansiosa fanciulla, da poco escita dal suo presbiterio dell’Hampshire. Il tipo è di facile descrizione, perché è uno di quelli che fortunatamente non scompare. L’uomo era bello ardito e seducente, gentilmente familiare, pieno di brio e di bontà. Egli, come non poteva non essere, la colpì con i suoi modi d’uomo galante, con il contegno aristocratico; ma più di tutto la sedusse, e le ispirò il coraggio che doveva più tardi dimostrare, la maniera di presentarle la cosa: doveva rendergli una grazia, fargli un favore per cui sarebbe stato felice di serbarle una gratitudine eterna. Ella lo giudicò ricco, ma di una pazzesca stravaganza. Le appariva con l’aureola dell’ultima moda, fisicamente seducente, d’una prodigalità facile e consueta, squisito nei modi con le donne. La vasta casa, nella quale la riceveva, era piena di cimeli stranieri, portati dai suoi viaggi, e di trofei di caccia. Ma egli desiderava ch’ella si recasse immediatamente nella casa di campagna – vecchia dimora familiare della contea d’Essex.
Era tutore di un nipotino e d’una nipotina, cui erano morti i genitori in India. Il padre, suo fratello minore, aveva abbracciata la carriera militare, ed era morto due anni prima. Quei bambini, che per un così grave caso gli eran piombati sulle spalle, erano un fardello pesante per un uomo nelle sue condizioni, senza esperienza alcuna in proposito e senza la minima dose di pazienza. Ne era derivata tutta una serie di noie, e, per colpa sua certamente, una catena d’errori. Ma i poveri orfanelli gli ispiravano una immensa pietà, e faceva per loro tutto quel che poteva. Li aveva, ad esempio, mandati nell’altra sua casa, essendo evidente che la campagna era quanto loro più si addiceva, e sin dall’inizio li aveva affidati al personale più indicato, il migliore che aveva potuto trovare, giungendo sino a separarsi, a vantaggio loro, dai suoi propri servitori, e a recarsi a visitarli quanto più frequentemente poteva, per vedere come andassero le cose. Il grosso inconveniente consisteva nel fatto che, praticamente parlando, essi non avevano altro parente che lui, mentre i suoi affari personali gli assorbivano tutto il tempo. Li aveva collocati a Bly, luogo di sicurezza e di salubrità indiscutibile, e vi stavano come in casa propria; per dirigere la casa (ma soltanto dal punto di vista materiale) vi aveva mandato un’ottima donna, la signora Grose, antica cameriera di sua madre, che sarebbe certamente piaciuta alla giovine visitatrice. La signora Grose era preposta al governo della casa, e adempieva temporaneamente al cómpito d’una specie di governante della bambina, alla quale, fortunatamente, era molto affezionata, non avendo figlioli propri. Il personale di servizio era numeroso; ma, era chiaro, la signorina, che avrebbe mandato laggiù in veste d’istitutrice, avrebbe avuto alle dipendenze tutta quella gente. Durante le vacanze avrebbe dovuto sorvegliare anche il ragazzo, che da un trimestre era in collegio – benché fosse ancora in tenerissima età. Ma che si poteva far di meglio? Le vacanze stavano per principiare, e il bambino doveva ritornare da un momento all’altro. I fanciulli erano stati subito affidati ad una signorina, che avevano avuto la sventura di perdere. Era una persona raccomandabilissima, ed aveva mirabilmente esplicato le proprie funzioni sino alla sua morte, il gran contrattempo provocato dalla quale non aveva, precisamente, lasciato alternativa diversa dal mandare il piccolo Miles in collegio. Da quell’epoca, la signora Grose aveva fatto quanto stava in lei per attendere alla buona educazione di Flora, e perché nulla le mancasse. V’era inoltre una cuoca, una cameriera, una giovine lattaia, un vecchio cavalluccio, un vecchio palafreniere ed un vecchio giardiniere, tutti famigli di fedeltà sicura.
Douglas era giunto a questo punto del racconto, quando gli venne rivolta la seguente domanda:
— E di che è morta quella prima istitutrice? Per eccesso di buone qualità?
La risposta del nostro amico fu pronta:
— Lo saprete al momento opportuno: non voglio precorrere il racconto.
— Scusatemi: credevo che fosse proprio quello che stavate facendo.
— Se io fossi stato il successore – suggerii – avrei desiderato sapere se il posto comportasse...
— Un pericolo di morte? – Douglas completò il mio pensiero. – Sì, ella desiderò saperlo, e, in fatti, lo seppe, come vi dirò domani. Fra tanto, le cose le apparvero veramente sotto un aspetto un po’ inquietante: ella era giovine, nervosa, inesperta, aveva dinanzi un susseguirsi di gravi doveri, in un ambiente molto limitato; in somma, sarebbe stata circondata da una grande solitudine. Esitò per due giorni, meditò, chiese consigli; ma poiché l’onorario offerto superava quant’altro mai potesse sperare, dopo un secondo colloquio, firmò l’assunzione.
Douglas fece una pausa, ed io ne approfittai per insinuare questa osservazione, a beneficio di tutta l’assemblea:
— La morale di tutto questo è che l’affascinante signore esercitava una seduzione irresistibile, cui ella cedette.
Egli si alzò, e, come nella sera precedente, avvicinandosi al fuoco, respinse col piede un tizzone, e restò per un momento con la schiena voltata.
— Ella lo vide solo due volte.
— Sì, ma proprio in questo è la bellezza della sua passione.
Douglas, sentendosi dir questo, con mio leggero stupore, mi si rivolse:
— Sì, ne fu veramente la bellezza. Altre – continuò – non ne furono soggiogate. Egli le manifestò francamente le difficoltà, che incontrava nelle sue ricerche; a parecchie candidate le condizioni erano parse impossibili: in certo qual modo, ne sembravano spaventate, e, più ancora, quando venivano a conoscere la condizione principale.
— Che era?...
— Ella non doveva mai disturbarlo per nessun motivo; ma mai, assolutamente mai: né chiamarlo, né lamentarsi, né scrivergli; doveva risolvere da sola tutte le difficoltà che avrebbe incontrate, ricevere dal notaio il danaro necessario, provvedere a tutto, e lasciarlo tranquillo. Ella glielo promise, e mi ha confessato che quando egli le tenne per un istante le mani nelle sue, sollevato e felice, ringraziandola del sacrificio, si era già sentita ricompensata.
— E fu quella tutta la ricompensa? – chiese una signora.
— Non lo rivide mai.
— Oh! – esclamò la signora.
Il nostro amico ci lasciò immediatamente, sicché fu questa l’ultima parola significativa detta sull’argomento, sino alla sera seguente, in cui, seduto nella poltrona più comoda, accanto al fuoco, egli aprì un albo sottile con la coperta d’un rosso stinto, i tagli dorati nel modo antico.
La lettura occupò più d’una serata; ma, alla prima occasione, la stessa signora rivolse un’altra domanda:
— Come s’intitola?
— Non ha titolo.
— Oh! non conta: ne ho uno io – dissi. Ma Douglas, senza udirmi, aveva incominciato a leggere, con un’articolazione netta e pura, che rendeva come sensibile all’orecchio la bellezza della calligrafia dell’autore.
I.
Ricordo l’inizio soltanto come un succedersi d’alto e di basso, un va e vieni d’emozioni diverse, ora naturalissime, ora ingiustificate. Dopo quello slancio d’energia che, in città, mi aveva trascinato ad accettare il suo invito, ebbi due pessime giornate: tutti i miei dubbi s’erano ridestati, ero sicura d’aver preso la peggiore delle decisioni. In questo stato d’animo, trascorsi le lunghe ore del viaggio in una diligenza sobbalzante e mal molleggiata, che mi condusse alla meta designata. Vi dovevo trovare una carrozza della casa cui ero diretta, e vi trovai infatti, verso la fine d’un pomeriggio di giugno, un comodo veicolo, che m’aspettava. Tutta l’energia, nell’attraversare, in quell’ora, in una giornata magnifica, un paesaggio la cui ridente bellezza sembrava augurarmi il benvenuto, mi ritornò, e, allo svolto del viale, m’ispirò un alato ottimismo, il quale non poteva essere se non la reazione ad un profondo scoraggiamento. Suppongo che mi aspettassi, o temessi, alcunché di così spiacevole che lo spettacolo che m’accolse costituì una bella sorpresa. Ricordo la piacevole impressione che produsse in me la grande facciata luminosa, con le finestre tutte aperte, donde, dissimulate tra le fresche cortine, due domestiche guardavano fuori; ricordo il prato ed i fiori fulgenti, lo stridere delle ruote sulla ghiaia, le vette degli alberi che si congiungevano, mentre al di sopra le cornacchie descrivevano grandi cerchi, strillando nel cielo dorato. La grandiosità dello scenario m’impressionò: era ben diverso dalla modesta dimora nella quale avevo vissuto sino a quel giorno! Una donna cortese, che teneva per mano una bambina, apparve subito sulla porta, e mi fece una riverenza cerimoniosa come se fossi stata la padrona di casa, o un’ospite di grande importanza. L’impressione che del luogo m’era stata data a Harley Strett era molto più modesta: ricordo che, per questo, ritenni il proprietario più gentiluomo ancora, e pensai che i piaceri del cómpito affidatomi potessero essere superiori a quelli che mi aveva lasciato intravvedere.
Non provai delusione di sorta sino al giorno seguente, perché trascorsi ore trionfali a far la conoscenza della mia più piccola allieva. Quella bambina, che accompagnava la signora Grose, mi colpì immediatamente come una creatura talmente squisita che doveva essere una vera gioia occuparsi di lei. Non avevo mai veduta una bambina più bella, e, più tardi, mi chiesi come mai il padrone non me ne avesse parlato. Quella prima notte dormìi poco: ero troppo agitata, e ricordo che ne rimasi colpita, ossessionata, accompagnandosi l’insonnia all’impressione prodotta dalla generosità dell’accoglienza che m’era stata offerta. La camera, imponente e spaziosa – una delle più belle della casa, – l’ampio letto, che mi sembrava un letto di parata, i pesanti cortinaggi disegnati a fogliame, le alte specchiere nelle quali, per la prima volta, mi vedevo dalla testa ai piedi, – tutto mi colpiva (nel modo stesso dello strano fascino della piccola allieva), come fosse un ordine naturale delle cose di quel luogo. Sin dal primo giorno, furono anche una cosa del tutto naturale i miei rapporti con la signora Grose: durante il viaggio in diligenza vi avevo pensato con inquietudine. L’unico motivo che, a prima vista, avrebbe potuto rinnovare quell’inquietudine era la sua gioia anormale per il mio arrivo. Sin dalla prima mezz’ora, la trovai contenta a tal punto che, positivamente, ella si vigilava – era una grossa donna, semplice, aperta e sana – per non dimostrarlo troppo. Mi stupìi persino un poco, in quel momento, ch’ella preferisse non farlo vedere, ed è evidente che, riflettendoci, avrei potuto avere qualche sospetto in proposito e provarne malessere.
Ma era un conforto pensare che malessere alcuno non poteva derivare da quella beatificante visione, ch’era l’imagine radiosa della bambina, visione la cui angelica bellezza, più di tutto il resto, probabilmente, era causa di quell’agitazione, che mi fece alzare prima di giorno e camminare per la stanza, col desiderio d’impossessarmi interamente del paesaggio e della veduta; di spiare, dalla finestra, l’aurora incipiente d’un giorno d’estate; di scoprire le altre parti della casa, che non potevo abbracciare con lo sguardo, e, mentre nell’ombra svanente gli uccelli cominciavano a chiamarsi, udir forse di nuovo certi suoni meno naturali e provenienti non dall’esterno bensì dall’interno, che imaginavo d’aver udito. Per un attimo, m’era parso d’afferrare, debole e in lontananza, il grido d’un bimbo; quindi, ero quasi incoscientemente trasalita, come per il fruscío di un passo leggero davanti alla mia porta. Ma tali imaginazioni non erano abbastanza insistenti, perché non potessi facilmente respingerle, e mi tornano in mente soltanto alla luce o, piuttosto, all’ombra, degli avvenimenti posteriori. Non v’era dubbio che sorvegliare, istruire, «formare» la piccola Flora, non dovesse essere opera d’una vita utile e felice. Dopo cena, avevamo deciso che, trascorsa la prima notte, ella avrebbe, naturalmente, dormito in camera mia, dove il suo lettino bianco era già stato collocato a questo scopo. Dovevo occuparmi completamente di lei, che era rimasta una notte ancora con la signora Grose, soltanto per riguardo al mio inevitabile imbarazzo ed alla sua naturale timidezza. Ma ero sicura che, non ostante questa timidezza, me la sarei affezionata rapidamente. Cosa bizzarra: la fanciulla, in proposito, s’era spiegata francamente e coraggiosamente; ci aveva lasciate, senza impaccio alcuno, proprio con la dolce e profonda sicurezza d’un angelo di Raffaello, discuterne, ammetterlo e sottometterci. Una parte della mia simpatia per la signora Grose derivava dal piacere che le procurava la mia ammirazione e la mia meraviglia, mentre ero seduta con l’allieva, davanti ad una cena di pane e di latte, illuminata da quattro candelieri, la fanciulla dirimpetto a me sul suo predellino, in grembiule, col bavagliolo. Davanti a Flora, naturalmente, v’erano molte cose che potevamo comunicarci soltanto con sguardi allegri e significativi, o con indirette ed oscure allusioni.
— E il bambino le rassomiglia? è altrettanto notevole?
Non era conveniente, come già ci eravamo dette, lusingare troppo apertamente i fanciulli.
— Oh! signorina, notevolissimo! Voi trovate la bambina gentile! – E stava in piedi, con un piatto in mano, guardando con un sorriso raggiante la piccina, mentre i soavi occhi celestiali di questa andavan da l’una all’altra di noi, senza che nulla in loro ci spingesse a smettere le lodi.
— Ebbene, sí! in fatti, mi pare...
— Vi estasierete per il signorino.
— Mi sembra proprio d’essere qui solo per questo... per entusiasmarmi di tutto. Mi par tuttavia di capire – soggiunsi, quasi mio malgrado – che mi lascio trascinare un po’ troppo facilmente. Anche a Londra m’è capitata la stessa cosa.
Vedo ancora il grasso volto della signora Grose, mentre penetrava il significato delle mie parole.
— Ad Harley Street?
— A Harley Street!
— Ebbene, signorina, non siete la prima, e né meno sarete l’ultima.
— Oh! – risposi, riuscendo a ridere, – non ho la pretesa d’esser la sola! Ad ogni modo, da quel che ho compreso, l’altro allievo arriva domani?
— Non domani, signorina: venerdì. Arriverà come voi, con la diligenza, sotto la sorveglianza del cocchiere: lo manderemo a prendere con la stessa carrozza che vi venne a ricevere.
Saggiai allora se fosse opportuno, nel tempo stesso che gentile ed amichevole, recarmi con la sorellina all’arrivo della diligenza. La signora Grose accolse così favorevolmente la proposta che mi dette l’impressione d’assumere, per così dire, il confortante impegno – venne sempre fedelmente mantenuto, grazie a Dio! – d’esser del mio parere su tutti gli argomenti. Come era contenta della mia presenza!
Quello che il giorno dopo provai, penso, non può in verità chiamarsi una reazione all’allegria dell’arrivo: non era, probabilmente, nella peggior delle ipotesi, se non una leggera oppressione, derivata da una più precisa osservazione delle circostanze che mi circondavano, quando, per esprimermi così, feci il giro di esse, le esaminai, me ne penetrai. Queste circostanze avevano un’estensione ed erano una massa tale come non v’ero preparata. Quando mi ci trovai di fronte, me ne sentii dapprima vagamente confusa e, tuttavia, assai orgogliosa. Le lezioni propriamente dette risentivano certamente della mia agitazione: pensavo che fosse primo mio dovere creare un’intimità tra la piccina e me, adoperando tutte le seduzioni delle quali disponevo. Trascorsi dunque la giornata fuori, con lei. Convenimmo tra di noi, con sua grande sodisfazione, ch’ella, ed ella sola, mi avrebbe fatto visitare la casa: me la fece visitare a passo a passo, stanza per stanza, nascondiglio per nascondiglio, intrattenendomi con un divertente e delizioso chiacchierío fanciullesco, che in una mezz’ora conseguí il risultato di fare di noi un paio di grandi amiche. Mi colpí, durante il nostro giro, ch’ella, bambina com’era, avesse tanto coraggio e tanta sicurezza. Nelle camere vuote e negli oscuri corridoi, nelle scale a chiocciola, sulle quali io stessa ero talora obbligata a fermarmi, e persino sul sommo d’una vecchia torre con caditoi, che mi dava la vertigine, il suo cinguettío fanciullesco, la tendenza a dar spiegazioni piuttosto che a chiederne, tutto il suo modo di fare, esultante e dominatore, mi stordiva e mi trascinava. Non ho mai più veduto Bly dal giorno in cui ne sono partita, e, sicuramente, apparirebbe ora molto diminuito ai miei occhi invecchiati e delusi; ma, mentre la piccola guida dai capelli d’oro e dalla vestina azzurra, mi saltava davanti nei giri dei vecchi muri, e sgambettava lungo i corridoi, mi sembrava di vedere un castello da romanzo, abitato da un folletto dalle guance rosa, un luogo appetto al quale avrebbero fatto cattiva figura le fiabe e le più belle favole per bambini. Non era tutto un racconto, un racconto sul quale sonnecchiavo e fantasticavo? No: era una vasta casa vecchia e brutta, ma comoda, che aveva conservate alcune parti di una costruzione più antica, metà distrutta e metà utilizzata. Il nostro piccolo gruppo quasi mi sembrava vi fosse smarrito come un pugno di passeggeri su un grande bastimento alla deriva. E, cosa strana, il timone lo tenevo io!
II.
Me ne resi ben conto quando, due giorni dopo, in carrozza, andai con Flora incontro al signorino, come diceva la signora Grose; tanto più che un incidente, accaduto la seconda sera, mi aveva profondamente sconcertata. Il primo giorno, come ho detto, era stato nel suo insieme rassicurante. Ma ne dovevo veder cambiare il tono. Il corriere di quella sera – che giunse tardi – portava una lettera per me. Era del mio padrone: conteneva solo poche parole, e ne includeva un’altra diretta a lui, ma che non era stata aperta. «La lettera acclusa proviene dal direttore del collegio, il quale è un insopportabile seccatore. Vogliate leggerla, dirimere la questione con lui, e, soprattutto, non parlarmene. Non una parola. Parto!» Aprirla mi costò un grande sforzo; uno sforzo tale che m’occorse molto tempo per decidermi. Finalmente, mi portai in camera la lettera, sempre chiusa, e la lessi soltanto nel momento in cui stavo per coricarmi. Avrei fatto meglio ad aspettare sino al giorno dopo, perché ne derivò una seconda notte insonne. Il giorno dopo ero molto preoccupata, non avendo alcuno cui chiedere consiglio; ma la preoccupazione s’accrebbe a tal punto che decisi di confidarmi almeno con la signora Grose.
— Che vorrà mai dire? Il bambino è scacciato dal collegio?
Fui impressionata dallo sguardo che mi lanciò; poi, visibilmente, con una indifferenza rapidamente riacquistata, cercò di riprendersi.
— Ma tutti i collegiali non son forse?...
— Rimandati a casa? Sì, ma soltanto per la durata delle vacanze. Miles, invece, non potrà più ritornare in collegio.
Ella, sotto il mio sguardo attento, perse la sicurezza ed arrossì.
— Non vogliono tenerlo?
— Vi si rifiutano, nel modo più reciso.
Allora, ella alzò su di me gli occhi, che aveva distolti, e li vidi pieni di lacrime sincere.
— Che ha fatto?
Esitai: poi ritenni fosse meglio farle leggere la lettera. Gliela tesi, ma quel gesto le fece mettere con grande semplicità le mani dietro la schiena, senza prenderla. Scosse tristemente il capo:
— Queste cose non son fatte per me, signorina...
La mia consigliera non sapeva leggere!