Jung e le Filosofie Orientali - Barbara Barone - E-Book

Jung e le Filosofie Orientali E-Book

Barbara Barone

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Beschreibung

Carl Gustav Jung è da ritenersi non solo uno storico psichiatra e psicoanalista ma anche e soprattutto un grandissimo studioso delle culture e filosofie orientali. Se vogliamo, in tal senso, fu un vero e proprio precursore rispetto al crescente interesse verso dottrine tanto antiche quanto affascinanti, quali lo Yoga, il Tao e lo Zen.

Il suo interesse per le filosofie orientali era quasi un'ossessione. Jung praticava lo yoga e trattava i propri pazienti con la meditazione zen e i mandala. La sua affascinazione per il Nirvana, il Karma, i Chakra, il Kundalini, il Raja Yoga, il Tao, l'I Ching... era quasi maniacale.

Questo saggio indaga il viaggio culturale e spirituale che il professore svizzero compì verso tali direzioni, avvicinando e confrontando le antiche dottrine orientali con i pilastri della cultura e filosofia occidentale. Scopriremo, pertanto, uno Jung inedito e ancora più sorprendente, per quella che è stata una personalità già complessa e di rara sensibilità intellettuale.

Un modo originale e diverso, perché no, di compiere un sorprendente viaggio verso e attraverso culture per noi tanto affascinanti quanto ancora misteriose e poco esplorate.  

Per chi è questo libro:

Per chi vuole conoscere la cultura Yoga
Per chi vuole conoscere la filosofia Zen
Per chi vuole conoscere la dottrina del Tao
Per chi vuole conoscere i Mandala
Per chi vuole conoscere l'I Ching
Per chi vuole scoprire i Chakra
Per chi vuole conoscere il Buddhismo
Per chi è interessato alla Meditazione
Per chi è interessato al Nirvana e al Karma...


È un libro per soli amanti e studiosi di Psicologia e Filosofia? ASSOLUTAMENTE NO!
È UN LIBRO ADATTO A CHIUNQUE abbia voglia di scoprire le filosofie orientali (o approfondirne le conoscenze), attraverso gli studi di uno dei massimi pensatori della nostra cultura.

Attraverso questo libro, rimarrai folgorato dal potere magnetico delle dottrine orientali e scoprirai quali sono le sostanziali differenze tra il pensiero occidentale e quello orientale, in particolare per quanto concerne il senso della vita e la sua percezione.
In particolare scoprirai il senso più profondo del vivere secondo i crismi delle filosofie orientali. Tali conoscenze apriranno potentemente in te uno spiraglio verso un nuovo equilibrio interiore e un nuovo senso della vita...

In conclusione, un libro che potrebbe rivelarsi un potente faro per una percezione nuova della tua persona e del mondo che ti circonda. Una lettura da affrontare con la curiosità di un bambino che ha sete di vita e conoscenza.

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JUNG

E LE FILOSOFIE ORIENTALI

Barbara Barone

ATTENZIONE: Tutti i diritti sono riservati a norma di legge. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con alcun mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. È espressamente vietato trasmettere ad altri il presente libro, né in formato cartaceo né elettronico, né per denaro né a titolo gratuito. Le strategie e i consigli riportati in questo libro sono frutto di anni di studi e specializzazioni personali dell’Autore. La sola lettura del libro non si ritenga garanzia per il raggiungimento dei medesimi risultati di crescita personale o professionale. Il lettore si assume piena responsabilità delle proprie scelte, consapevole dei rischi connessi a qualsiasi forma di esercizio. Tutte le informazioni e i consigli contenuti in questo libro vanno recepiti con senso critico. Pertanto, l’Editore si solleva da qualunque responsabilità nei confronti del lettore e di terzi per eventuali danni, a persone o cose, derivanti da iniziative intraprese a seguito della lettura del testo. Il libro ha esclusivamente scopo formativo e non sostituisce alcun tipo di trattamento medico o psicologico. Se sospetti o sei a conoscenza di avere dei problemi o disturbi fisici o psicologici dovrai affidarti a un appropriato trattamento medico.

Copyright © 2018 HOW2 Edizioni

Tutti i Diritti Riservati - Vietata qualsiasi duplicazione

INDICE

 

PREFAZIONE: Una via all’introspezione cosmica…

Introduzione: Il progresso spirituale dell’anima…

I. JUNG E LA SCOPERTA DEL PENSIERO ORIENTALE: NOTE BIOGRAFICHE…

II. LA QUESTIONE DELLA COSCIENZA, DELL’INCONSCIO E DELL’INDIVIDUAZIONE: UN CENTRO DI VITA DINAMICO…

III. L’APPROCCIO PSICOLOGICO E LA MEDITAZIONE BUDDHISTA…

IV. ARCHETIPI, SIMBOLI e MANDALA : FATTORI DELLA TRASFORMAZIONE…

V. MORTE, RINASCITA E REINCARNAZIONE…

VI. L’ATTINGIMENTO DEL NIRVANA E LA LIBERAZIONE: IL LIBRO TIBETANO DELLA GRANDE LIBERAZIONE…

VII. JUNG E LA FILOSOFIA DEL VEDANTA, DEL RAJA YOGA E DEL KUNDALINI YOGA…

VIII. LA SINTESI DEGLI OPPOSTI E L’ATTINGIMENTO DEL BRAHMAN…

IX. LA VIA DELL’ASCESI SPIRITUALE: ELEMENTI DI RAJA YOGA…

X. LA VIA DEL KUNDALINI YOGA…

XI. JUNG E LA VIA REALIZZATIVA DELLO ZEN E DEL TAOISMO…

XI. PSICOLOGIA JUNGHIANA E ALCHIMIA TAOISTA; UN INCONTRO PROFIQUO…

XII. L’”I Ching” o il Libro dei mutamenti: introduzione di R. Wilhelm…

Conclusioni…

NOTE…

Glossario termini orientali…

Bibliografia ragionata…

 

 

 

 

PREFAZIONE: Una via all’introspezione cosmica

Sarò franco: so bene che chi non ama (come me) la cosiddetta new-age, proverà un certo moto di distacco ironico al solo udire la parola "mandala".

Ma sapete cos'è davvero il Mandala, per il sommo nume della psicologia (e sono certo che, come me, saranno in molti a giudicarlo tale): Carl Gustav Jung?

Ecco quanto ci dice al proposito l'autrice Barone, nel saggio che state per leggere:

“Il mandala è uno dei simboli più antichi, che riguarda l’intera umanità. Per Jung questo simbolismo originario si può rintracciare fin dall’età paleolitica. La creazione di un mandala è uno spontaneo processo psichico che cerca la strada verso l’individuazione e la completezza del Sé, come emerge dal seguente passo:

'Il mandala è una immagine archetipica la cui presenza è confermata attraverso i millenni: esso indica la totalità del Sé, ovvero rappresenta la compiutezza del fondamento psichico, per dirla in termini mitici, la divinità incarnata nell’uomo' (C. G. Jung, Ricordi sogni riflessioni, cit., pp. 404-405)”.

Fa un effetto diverso, ora, pensare al significato (e non più solo al termine) di "mandala", non è vero?

Questo esempio vi mostra chiaramente cosa vi porterà la lettura del presente saggio: il racconto di una relazione profonda tra Jung e il pensiero dell'Oriente, che potremmo definire come avvicinamento e traduzione. Avvicinamento, serio, dedito e rispettoso, come è tipico di tutti i momenti della ricerca condotti da Jung, alla filosofia orientale; traduzione dei suoi concetti fondamentali nel pensiero dello psicologo zurighese.

E qui veniamo a un altro portato fondamentale del saggio della Barone: opera davvero chiara e sovente sintetica, non solo sul rapporto tra Jung e l'Oriente, ma su tutti i capisaldi fondamentali del pensiero di Jung (archetipi in primis). Anche il lettore non introdotto agli scritti dello psicologo potrà quindi trovare qui una chiave di accesso pratica e immediata a molti dei suoi concetti più importanti.

La psicologia del XIX secolo, come afferma Jung, è una scienza dei fenomeni, senza alcuna implicazione metafisica. L’uomo non è più, come per i medievali, la scintilla dell’Anima Mundi. Così Jung non si esprime né a favore, né contro il postulato metafisico di una Mente Universale (postulato cardine, al contrario, in gran parte del pensiero orientale, come ad esempio nel Buddhismo, dove Alaya-vijnana è la mente universale e cosmica in cui sono presenti tutte le cose); egli aveva bisogno di provare ogni ipotesi e asserzione da un punto di vista esperienziale. L’Occidente però, per lo psicologo, ha bisogno delle modalità introspettive dell’Oriente perché dal razionalismo in poi soffre di una separazione insanabile tra scienza e fede, fra gli aspetti pragmatici dell’esistenza e le motivazioni attinenti al mondo del sacro. Il libro della Barone mostra quindi, con Jung, la possibilità di percorrere una via all’introspezione cosmica, un aprirsi del transitorio quotidiano all’eterno e imperituro:

“In fondo, le sole vicende della mia vita che mi sembrano degne di essere riferite sono quelle nelle quali il mondo imperituro ha fatto irruzione in questo mondo transeunte. Ecco perché parlo principalmente di esperienze interiori, nelle quali comprendo i miei sogni e le mie immaginazioni” (C. G. Jung, Ricordi sogni riflessioni, BUR, Milano 1992, p. 19).

Il percorso esperienziale junghiano indicato da Barone è quindi, per sommi capi, quel processo dinamico di integrazione dell’inconscio e di superamento della mera egoità: trascendere il punto di vista del proprio Io ristretto. Questo è uno dei parallelismi con gli aspetti più profondi della meditazione, della via Yoga all’autorealizzazione, del Taoismo, dello Zen e del Buddhismo: punto di contatto e confronto, quindi, tra Occidente “illuminato” (anche se l’Occidente che ha scoperto l’inconscio, più che sui lumi, si affaccia sull’oscuro) e Oriente, per tradizione letteraria, misterioso.

“Nell’Oriente non c’è conflitto tra religione e scienza, perché non esiste una scienza basata sull’amore per i fatti, né una religione basata soltanto sulla fede; c’è una conoscenza religiosa e una religione conoscitiva” (C. G. Jung, Commento psicologico, in W. Y. Evan Wentz (a cura di), Il libro tibetano della grande liberazione, cit. nel testo, p. 13.)

Se quindi una lettura può essere apertura ad un cammino conoscitivo del Sé, e del mondo esterno attraverso il Sé, il saggio della Barone vi mostra senz’altro come intraprendere passi profondi in questa direzione dell’esperienza psicologica e umana.

Daniele Corradi

Direttore Editoriale

HOW2 Edizioni

Introduzione: Il progresso spirituale dell’anima

Il presente lavoro è un'immersione nel mondo psicologico ed esistenziale di C. G. Jung e in particolar modo nella sua profonda sete di conoscenza del mondo psichico, interiore e di evoluzione dell’anima, così come è presentato dai sistemi spirituali orientali. L’autore nutriva difatti un vivo interesse per gli elementi esoterici della costituzione umana e l’oriente, con le sue dottrine e filosofie, rappresentava una fonte viva a cui attingere motivi e stimoli per la sua riflessione. Nelle sue indagini, Jung si era avvicinato allo studio ed alla comparazione dei principi spirituali occidentali con le filosofie realizzative indiane; in particolar modo si era accostato allo studio del Brahmanesimo, del Raja yoga, del Vedanta e del Kundalini yoga, per approdare al Buddhismo tibetano. Contemporaneamente, grazie all’aiuto del sinologo Wilhelm, aveva preso in considerazione il Taoismo e successivamente il pensiero Zen, concludendo così il suo “viaggio verso l’Oriente”. Quindi i temi della liberazione, dell’illuminazione, del nirvana e del progresso spirituale dell’anima sono stati gli archetipi che seguirono Jung durante tutto il suo percorso esistenziale, strutturando la sua vita emotiva, mentale e spirituale. Come espone nella sua autobiografia, non c’era giorno in cui non si immergesse nei recessi intimi e segreti del suo spirito; la sua anima si nutriva di immagini oniriche e splendenti che indicavano la via realizzativa del Sé, che Jung era solito chiamare la “via per l’individuazione”. In questo percorso viene proposto quindi un excursus che prende in considerazione i processi conoscitivi e realizzativi del Sé come presentati da Jung in accordo con le visioni orientali, arricchiti da contenuti tratti da autori critici junghiani, di non sempre facile reperibilità. Lo scopo è di rendere più chiare le analogie e le differenze fra i due sistemi conoscitivi: quello Occidentale e quello Orientale. Nonostante questa propensione per le filosofie “altre”, Jung ebbe motivi di reticenza e di cautela verso l’accettazione incondizionata di un sistema di vita che si distaccava e differenziava profondamente, dal pensiero e dall’agire occidentale. Lo psicologo dirà difatti che la vera universalità va cercata dentro di noi, che i veri archetipi collettivi ed universali sono un portato interiore della psiche e che non è saggio acquisire modi e tecniche di vita straniere, solo attraverso una mimesi formale ed esteriore del “diverso”. Attualmente queste reticenze sono state superate grazie ad un lavoro di sempre maggior affinamento e conoscenza diretta delle tecniche spirituali e realizzative orientali, tanto che si può affermare che molti occidentali sono riusciti a integrarle nella loro vita e a stabilire un rapporto fruttuoso con esse. Ma all’epoca di Jung il mondo orientale era quasi sconosciuto all’occidente, tanto che lo psicologo zurighese deciderà di filtrare il pensiero orientale, attingendo in particolar modo a quegli elementi che potessero appartenere ad una sfera dello psichico analiticamente riconosciuta, come ad esempio il fattore pervasivo della coscienza intesa come Sé; la mente nella sua natura dinamica energetica così come si presenta nei sogni o nella meditazione; l’espansione della consapevolezza attraverso processi di iniziazione intesi come individuazione dell’essere umano; le tecniche di integrazione e di unione dello yoga viste come alter ego della funzione trascendente; gli archetipi dell’inconscio collettivo intesi come le “matrici di vita” - i principi sottili trascendenti - così come si presentano in gran parte della speculazione orientale. In questo percorso di conoscenza ciò che interessava a Jung era la comprensione della vera natura umana nascosta sotto le pieghe dell’inconscio; il suo è stato un “viaggio” all’interno dell’occulto e del segreto, riflettendo l’intensa ricerca spirituale che è emersa a cavallo fra XIX e XX secolo, alla scoperta del mistero profondo ed ineffabile che universalmente sostanzia e compenetra l’anima umana.

Barbara Barone

I. JUNG E LA SCOPERTA DEL PENSIERO ORIENTALE: NOTE BIOGRAFICHE

“A quell’epoca avevo letto molto

sulla filosofia e la storia religiosa dell’India,

ed ero profondamente convinto del valore

della saggezza orientale.

L’india mi colpì come un sogno,

poiché ero e rimasi alla ricerca

di me stesso, e della mia

verità personale.”

C.G.Jung

Fin dall’inizio, l’incontro e l’interesse di Jung con le “filosofie altre” si mostrano in tutto il loro alto valore ermeneutico. Tutta la sua vita fu intessuta dai “sentori dell’Oriente” e dalle sue atmosfere mistiche e mitologiche. La sua giovane immaginazione si nutriva di una creatività viva e inesauribile. Ebbe visioni di terre lontane, di personaggi fantastici e saperi diversi. Nella sua mente si andavano stratificando quei contenuti e quelle essenze luminose e numinose che caratterizzeranno la sua maturità. Aprì la sua anima alle manifestazioni filosofiche dell’India, del Tibet, della Cina e del Giappone, che rappresentarono un humus vitale per le sue costanti riflessioni: il “Luogo dell’Oriente” diventava così il luogo del nuovo ascolto. Il valore religioso della vita umana lo interessò fin dall’infanzia, come spiega la Aniela Jaffè:

Molteplici furono le vie che condussero Jung ad affrontare i problemi religiosi: esperienze proprie che lo posero di fronte, già da bambino, alla realtà dell’esperienza religiosa e lo accompagnarono fino alla fine della vita: l’irrefrenabile sete di conoscenza che rivolgeva a tutto ciò che si riferisce all’anima, ai suoi contenuti, alle sue manifestazioni, la sete di conoscere che caratterizzò tutto il suo lavoro scientifico; e, ultima, ma non meno importante, la sua coscienza di medico (1).

E Jung continua sul medesimo registro:

In fondo, le sole vicende della mia vita che mi sembrano degne di essere riferite sono quelle nelle quali il mondo imperituro ha fatto irruzione in questo mondo transeunte. Ecco perché parlo principalmente di esperienze interiori, nelle quali comprendo i miei sogni e le mie immaginazioni. Questi costituiscono parimenti la materia prima della mia attività scientifica: sono stati per me il magma incandescente dal quale nasce, cristallizzandosi, la pietra che deve essere scolpita (2).

Le due dimensioni, quella noumenica e quella fenomenica dialogavano e si intrecciavano indissolubilmente nella coscienza ancora in germe di Jung:

Chi parlava allora in me? E di problemi tanto superiori alla mia conoscenza? Chi congiungeva mondo celeste e mondo sotterraneo e poneva le fondamenta di tutto ciò che avrebbe agito la seconda metà della mia vita con tumulti appassionati? (3)

Così Jung accordò la sua attenzione e la sua vivace immaginazione alle culture orientali fin dall’età di sei anni, quando sua madre gli leggeva l’ “Orbis pictus” di Comenio (1592/1670) e continuò fino alla fine della sua esistenza, come puntualizza John J. Clark:

Quando ancora non sapeva leggere, egli insisteva già perché sua madre gli leggesse un libro che conteneva le storie di Brahma, Víshnu e Shíva, che egli considerava “un’inesauribile fonte di interesse”. E si occupava ancora delle idee buddiste poco prima di morire (4).

Lo psicologo dirà di questo libro:

In effetti provavo uno strano sentimento, come se [queste immagini] avessero qualche affinità con la mia “originale rivelazione”, della quale non parlavo con alcuno, quasi si trattasse di un segreto da non dover mai tradire (5).

Da un lato quindi Jung indagava i processi dell’inconscio e la natura del Sé, dall’altro nutriva la sua coscienza dei prodotti simbolici dell’alchimia, della gnosi cristiana, dell’occultismo e dei testi filosofici dell’Oriente. Ciò che attirava Jung era il riconoscimento, da parte dell’Oriente, della realtà psichica e dell’importanza accordata alla mente e alla coscienza. Per il Buddhismo mahayana così come per il Vedanta il mondo non esiste se non in quanto manifestazione ed espressione di una coscienza. Si trova quindi una indubbia affinità del pensiero di Jung con quello orientale, soprattutto per quanto riguarda la dimensione del Sé e la natura degli archetipi. La sua teoria su questi ultimi, inscriveva il pensiero di Jung in una dimensione originaria appartenente alla coscienza collettiva condivisa da tutta l’umanità e appartenente ad ogni pensiero religioso o del sacro. La sua concezione di una psiche dinamica, impegnata in un processo incessante di rigenerazione, rivela affinità e risonanze con la tradizione Vedanta, dello Yoga, del Buddhismo e del Taoismo. La scoperta di tali reciprocità del suo pensiero con le filosofie Orientali fu un evento rilevante nella sua vita; servì a nutrire e formulare considerazioni e riflessioni sulla profondità della natura umana. Jung si avvicinò così all’ “altro” dell’Oriente, che si presenta, come afferma G. Farina:

Sintetico, assolutizzante, integrativo, non discriminante, deduttivo, non sistematico, dogmatico, intuitivo, non discorsivo, soggettivo, spiritualmente individualistico e socialmente incline alla vita di gruppo (6).

Lo psicologo zurighese sentiva quindi la necessità di esplorare le zone sacre dell’essere umano e la dimensione esistenziale ed esoterica che andava presentendo, lo immetteva in una zona elettiva, la zona dell’Essere, come esprime bene G.Farina:

Abbiamo quindi bisogno di un tempio che sia un luogo di spiritualità, di meditazione, di presentimento del Sé e della propria individualità (7).

Ma nonostante tutto, Jung non voleva importare dall’Oriente un sistema metafisico, bensì un modello per l’indagine della psiche e per la conoscenza dei processi riposti della mente. L’enfasi posta dal pensiero orientale sull’importanza dell’interiorità, sulla consapevolezza di sé e sull’auto analisi, offriva a Jung la possibilità di coltivare una più equilibrata rispondenza fra mondo spirituale e mondo materiale, fra corpo fisico e natura mentale, come propone di seguito John J. Clark:

Jung riteneva che le culture orientali, sia quella cinese sia quella indiana, ma in particolare il buddhismo, avessero affinato metodi per introiettare e assimilare materiale dai livelli più profondi della psiche, quelli inconsci, a cui in Occidente abbiamo tendenzialmente sbarrato ogni accesso, perfezionando in modo eccessivo la coscienza razionale (8).

Questo approccio direzionava lo psicologo sulla via della ricerca della completezza psichica, la via dell’individuazione, che prevedesse l’accoglimento e la considerazione degli aspetti non razionali della nostra vita, per non parlare dell’integrazione degli aspetti prettamente metafisici della natura umana. J.J. Clarke difatti afferma:

La completezza costituiva per Jung la meta e lo scopo della crescita psichica, ed era al centro della sua concezione del Sé.[…] Inoltre questo Sé non è un’entità statica, bensì un ‘processo dinamico’, una ‘forza attiva’ la cui essenza è la continua trasformazione e rigenerazione (9).

Il Sé è quindi un fattore propulsivo che per Jung può invadere numinosamente la coscienza; è come un demone pronto ad afferrare l’uomo e ad introdurlo nell’inconscio. Questo spirito però non è ancora visto come una dimensione liberante, così come propone A. Vitale:

Per Jung lo spirito era rimasto “oggettivo”, una forza che può invadere, soggiogare, sedurre, violentare l’uomo, il quale sarebbe “esposto” all’alterità dello spirito […] Se non avesse avuto una concezione del genere, derivata dalla sua volontà di negare ogni alterità rispetto all’esperienza umana, avrebbe potuto apprendere dall’Oriente che lo Spirito è quella volontà e consapevolezza che, spogliando l’Io dalle sue identificazioni, lo libera a una condizione di verità e libertà altrimenti inconcepibili (10).

Così le analogie riscontrate con il pensiero orientale indicavano a Jung una condivisione aperta ad alcuni aspetti teorici che gli stavano particolarmente a cuore, che si possono così presentare e riassumere:

. L’origine della coscienza e l’importanza accordata alla dimensione soggettiva, intesa come evidenza di una sfera psico-mentale abitata da forze e da energie motivanti.

L’osservazione approfondita ed incessante di una dimensione che travalicasse i limiti dell’io ordinario di veglia, da ritrovarsi nel concetto più allargato del Sé.

. L’interesse per l’inconscio come sfera e matrice archetipica capace di fondare il pensiero e le azioni del soggetto.

. La dimensione esistenziale dell’individuo stesso inserito da un lato nel ritmo del mondo, dall’altro immerso nella funzione immaginatrice e creatrice della coscienza.

. La necessità di superamento di tutti gli opposti polari nella ricerca della completezza attraverso un percorso che portasse alla realizzazione di sé.

. L’attenzione e la cura terapeutica capace di ristabilire un equilibrio in tutti quei soggetti psichicamente disturbati che si rivolgevano a lui in cerca di aiuto.

Questi sono alcuni temi fondamentali che si possono riscontrare anche nelle pratiche filosofiche e mediche delle antiche civiltà dell’India e della Cina, luoghi che si sono occupati principalmente della natura umana essenziale e della sua condizione esistenziale, dando particolare enfasi alla dimensione della coscienza e all’anima dell’uomo. Indagatore attento quindi, fin dalla giovane età, Jung si avvicina al pensiero orientale grazie alle sue letture filosofiche, soprattutto Schelling, Schopenhauer e Nietzsche, autori che avevano rivolto il loro interesse intellettuale e speculativo verso il lontano oriente. Jung era difatti portato per una visione globale dell’esistenza e si sentiva troppo stretto e vincolato dal luogo angusto e unilaterale dell’occidente. Lo psicologo ammirava le conquiste scientifiche della propria dimensione culturale, ma deprezzava la mancanza di spirito introspettivo capace di indagare i problemi etici, morali, sociali e soprattutto la vita soggettiva, la cui profondità poteva ampliare la dimensione coscienziale. Secondo Jung, l’Oriente era all’avanguardia nello studio e nella pratica di sistemi spirituali che tendessero a rivelare la dimensione olistica dell’uomo e la sua appartenenza elettiva al sacro: mentre l’Occidente aveva legato la sua espressione all’estroversione, l’Oriente aveva privilegiato la conoscenza e l’esperienza introspettiva. J.J.Clarke così ne parla:

Si trattava di una propensione per l’interiorità, di una inclinazione a distogliere lo sguardo dalla realtà esteriore per esplorare e comprendere il mondo rinchiuso all’interno della psiche o mente individuale, e di una tendenza a trovare la saggezza dentro di sé (11).

L’Oriente poteva così contro bilanciare le attitudini dell’Occidente, con la sua capacità di acquisire consapevolezza di sé, nell’uso liberatorio della mente, nella pratica di un percorso realizzativo che portasse ad una espansione della coscienza. Jung sperava che l’incontro con l’Oriente avrebbe condotto l’Occidente ad una riflessione critica sui propri presupposti conoscitivi, riconquistando la propria dimensione spirituale. Nel XIX secolo ci fu un’ondata importante di studi orientali e una nuova sete di conoscenza spirituale da parte dell’occidente. Nel 1875 difatti, nacque la società teosofica con E. P. Blavatsky che propugnò l’unità di tutte le religioni e aprì l’Occidente al pensiero esoterico e religioso dell’Oriente. Il pensiero buddhista cominciò a penetrare in Europa anche attraverso Edwin Arnold con la sua “Luce dell’Asia” del 1879, che narrava, in forma poetica, le vicende del giovane principe Siddharta, il futuro Buddha. Su questo solco si posizionano, all’incirca nel 1939, anche la traduzione degli “Annali Blu”, il libro dei miti e della storia tibetana,del russo George Roerich. Personalmente Jung si avvicina agli studi teosofici ed occultistici della E.P.Blavatsky e ha un confronto intellettuale con lo storico delle religioni M. Eliade, invitato per le conferenze di Eranos ad Ascona. Ha contatti con vari esponenti dell’indologia come H. Zimmer e con sinologhi come M. Granet. Conduce una vita spartana e cura una alimentazione vegetariana.

Secondo quanto emerge dalla sua autobiografia, le prime discussioni sul pensiero asiatico si tengono nelle riunioni del club culturale Zofingia, dove si dibattevano le idee filosofiche di Schopenhauer così come problemi di religione e teologia; a queste riunioni partecipava, prima del 1900, uno Jung studente universitario, ma riferimenti più decisi in questo senso si ritrovano in “”Trasformazioni e simboli della libido” del 1912 e in “Tipi Psicologici” del 1921, in cui Jung propone una interpretazione psicologica di alcuni brani delle Upanishad , del Rig Veda, degli Yoga-sutra e del Tao té Ching, familiarizzando il lettore con le mitologie vediche, il pensiero yoga, le dottrinebuddiste e taoiste . In questo contesto assistiamo al primo tentativo di Jung di organizzare un interessante parallelismo fra forme culturali occidentali ed orientali e soprattutto nel suo “Tipi Psicologici”, di affrontare lo spinoso problema della risoluzione degli opposti tanto caro al pensiero dell’est. Nel 1913 lo psicologo zurighese inizia la stesura del suo personale processo di individuazione e di trasformazione interiore, una analisi dettagliata e puntuale dell’immaginario onirico ed interiore che prenderà forma nel Libro Rosso; in questa opera, rimasta inedita fino alla sua morte, emerge la ricchezza e la poliformità degli archetipi dell’inconscio collettivo capaci di attivare quella “funzione trascendente” tanto cara a Jung per la ricomposizione degli opposti polari presenti in ogni individuo, unica via per la realizzazione del Sé.Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, Jung praticava esercizi yoga per dominare le emozioni e placare le manifestazioni del suo inconscio. Ciò aprì un confronto tra la pratica analitica e quella dello yoga che sfociò in un accostamento ai sutra –yoga di Patanjali e successivamente alla pratica del Kundalini–yoga: erano maturi i tempi per un proficuo confronto tra pensiero orientale ed occidentale rispetto al problema della natura e della condizione umana. Lo Shamdasani afferma:

Il Kundalini-yoga forniva a Jung il modello di qualcosa che era quasi completamente assente dalla psicologia occidentale: una descrizione delle fasi di sviluppo di una coscienza più alta (12).

Sonu Shamdasani, all’interno del testo di Jung, “Psicologia del Kundalini Yoga”, riporta inoltre l’importanza, per il confronto di Jung con l’oriente, il suo incontro con il conte Hermann Keyserling e la scuola della saggezza di Darmstadt, che fornì alle indagini junghiane un ambiente di tipo universitario che trattava problematiche di yoga inteso in tutta la sua portata spirituale. Secondo Shamdasani, Keyserling considerava lo yoga come un sistema psicologico superiore a qualsiasi modalità evolutiva occidentale e proponeva una tecnica innovativa di pratica spirituale capace di ampliare la consapevolezza e di permettere una rigenerazione spirituale. Sempre a Darmstadt, secondo lo Shamdasani, Jung incontrò all’inizio degli anni venti il sinologo R. Wilhelm con il quale istaurò una amicizia e una collaborazione profonda. Grazie all’orientalista, lo psicologo ha il suo primo contatto con il pensiero esoterico cinese. Deve infatti scrivere, nel 1928, il commento al trattato alchemico Il segreto del fiore d’oro, un manoscritto di origine taoista dell’ VIII sec. d.C. In questa circostanza Jung scopre una profonda affinità con il pensiero cinese soprattutto in merito alla funzione dei mandala, alla simbologia occulta che permea l’inconscio, all’armonia delle polarità (Yin/Yang) che dovrebbe pervadere l’individuo, al concetto di integrazione psichica, e alla realizzazione più profonda dell’essere umano. La teoria della complementarietà degli opposti appartiene di tradizione al pensiero tanto indiano che cinese e rappresentava per lo psicologo, un punto di confronto importante rispetto alla sua concezione della polarità umana. Jung, d’altro canto e in affinità con il pensiero e lo spirito taoista, si era sempre sentito profondamente in sintonia con la dimensione arcaica e naturale; provava un profondo sentimento d’unione con i corsi d’acqua, il sole, le stelle, le forze primigenie della natura (spiritus loci); immerso nella vastità della natura, sentiva un’attrazione per la vita frugale, spartana, e soprattutto simbolica, basata sul mito, che aveva potuto realizzare nella sua torre di Bollingen, rifugio intimo, segreto e spirituale per la sua interiorizzazione. La torre era circolare, con un fuoco al centro, come le yurte mongole o tante capanne africane, a simboleggiare il recinto sacro con il fuoco dello spirito in posizione preminente: nella sua progettazione Jung voleva costruire, come da sue parole, “una dimora secondo i sentimenti originari dell’uomo”. Come emerge dalla sua autobiografia, Jung era permeato da un senso d’unione cosmica, un’unità universale delle cose e degli uomini, la cui origne divina si manifestava al suo spirito indagante. Ammirava profondamente Lao Tse per la sua capacità di trovare il vero significato ed il vero valore nella vita, come emerge dalle sue parole:

Lao Tse è l’esempio di un uomo di superiore intelligenza, che ha visto e provato il valore e la mancanza di valore, e che alla fine della sua vita desidera tornare nel suo proprio essere, nell’eterno e in conoscibile significato (13).

Importanti per il pensiero orientale furono anche gli incontri di Eranos, incominciati nel 1933. John J. Clark nel suo “Jung e l’Oriente”, li presenta come incontri internazionali a cui partecipavano vari esponenti del pensiero orientale ed occidentale, tra cui l’indologo Heinrich Zimmer, il fisico Erwin Schrödinger, l’antropologo Paul Radin, i teologi Martin Buber e Paul Tillich con lo storico delle religioni Mircea Eliade. In questi eventi si intrecciavano i temi, cari all’oriente e all’occidente, dell’esperienza psicologica e religiosa dell’uomo.

Nel 1938 Jung partirà per l’India; non solo si immergerà nelle sue impressioni ed evocazioni, ma parlerà pure con importanti pandit, esponenti del pensiero indiano che lo introdussero alle speculazioni Indù e Buddhiste. Ebbe una importante esperienza di unità con gli altri esseri quando visitò e circumambulò lo stupa di Sanchi, dove il Buddha tenne il suo “Sermone sul Fuoco”. L’Om mani padme hum recitato da alcuni pellegrini, lo emozionò profondamente e gli fece capire che la collina di Sanchi aveva per lui un significato rilevante: quello di rivelargli le nuova realtà del Buddhismo e di comprendere la vita del Buddha come dimensione del Sé, cioè di una coscienza originaria più espansa e libera che, grazie ad una auto analisi potente, è capace di superare il mondo, accedendo alla sfera dell’illuminazione e dell’incondizionato Nirvana. Sotto questo punto di vista e per alcuni aspetti, Jung vedeva l’assimilabilità delle sue pratiche terapeutiche al concetto indiano di Mokşa, ossia di liberazione, ottenuta attraverso il superamento di tutti gli opposti estremi, anche se per il Buddhismo e l’Induismo la vera e propria liberazione prevedeva l’abbandono dell’attaccamento e l’uscita dal ciclo samsarico delle rinascite umane. Lo psicologo zurighese difatti prendeva le distanze dalla liberazione ultima, in quanto essa estingue la personalità e pone l’uomo al di fuori del mondo, in una forma di coscienza universale più elevata, mentre lui cercava una unità, una completezza e un’integrazione umana nel mondo. In India, Jung fu onorato con tre lauree honoris causa, ad Allahabad, a Benares e a Calcutta, rispettivamente per l’Islam, per l’Induismo e per la medicina. Ciò nonostante Jung si sentiva non perfettamente integrato e a suo agio nello scenario di vita indiano; i vicoli sporchi e maleodoranti delle città, l’aria paludosa e umida, l’invasione massiccia di suoni, luci e colori, la densità delle emozioni cittadine, ferivano la sua sensibilità, tanto che durante tutto il viaggio si impegnò nello studio di un testo alchemico occidentale del 1600 e sognò di dover ritrovare il Graal in occidente. Assistiamo qui all’emergere di una dubbio e di una incertezza filosofica che non abbandonarono mai le riflessioni dello psicologo e con i quali fu obbligato a fare i conti per il resto della sua vita. Come afferma John J. Clarke:

Il suo dialogo con l’Oriente non fu certo un confronto polemico. Ma non fu neppure un’affabile e tranquilla conversazione, […] Come in ogni autentico dialogo, vi furono differenze, fraintendimenti e contraddizioni, insieme a evoluzioni e chiarimenti (14).

Successivamente nello Sri Lanka visita il tempio di Dalada- Maligawa, dove si intrattiene discorrendo con i monaci e consultando i testi del canone buddhista incisi su lamine d’argento. Assiste anche ad uno spettacolo celebrativo in onore del Buddha e si accosta al mistero del suono del tamburo che è una sorta di muta preghiera mistica compiuta dall’essere umano pronto per il risveglio. Nel suo viaggio di ritorno Jung afferma :

Ma l’India non era passata senza lasciarmi traccia: al contrario, lasciò in me impronte che vanno da una infinità all’altra (15).

A questo periodo (1938) risalgono due articoli: “Il mondo sognante dell’India” e “Quel che l’India può insegnarci”, in cui affronta la natura nettamente introspettiva del pensiero indiano e di come questo possa nella sua essenza, ma non nella sua specificità tecnica, aiutare l’occidente nel suo recupero del senso del sacro.

Antecedentemente, nel 1932 Jung si era imbattuto nel testo di Sir John Woodroffe dal titolo “Il potere del serpente”, in cui venivano ampiamente trattate tematiche attinenti al Kundalini –yoga e allo sviluppo dei centri o chakra psichici, sfere di coscienza che immettono l’uomo dal microcosmo al macrocosmo, attuandone la trascendenza. Jung se ne era interessato per curare una giovane paziente occidentale che aveva risieduto per lungo tempo in India e presentava manifestazioni psichiche e oniriche del tutto differenti dalla cultura di provenienza. Sempre nel 1932, continuando questa ricerca sul Kundalini-Yoga e la natura e potenza dei Chakra, lo psicologo dedica quattro conferenze nel trattare questo tema, soprattutto in relazione al suo concetto di libido; da esse uscirà il suo “Psicologia del Kundalini-Yoga” e un commentoagli Yoga-sutra di Patanjali dello stesso periodo. Subito dopo affronterà il “Commento psicologicoal Bardo Tödöl” del 1935, ripreso successivamente nel 1953. Del 1936 è “Lo yoga e l’occidente” in cui paragona il sistema religioso occidentale con quello orientale. Nel 1939 approda al pensiero zen proponendo un commento introduttivo al testo di D.T. Suzuki “Introduzione al Buddhismo zen”, affrontando i temi cari a questo pensiero come l’uso dei Koan in meditazione, che eludono il linguaggio discorsivo e razionale permettendo una rottura di livello, ed il rapporto profondo dell’individuo con il Satori, lo stato di illuminazione e liberazione. Sempre del 1939 è il suo “Commento psicologicoal Libro tibetano della grande liberazione” di W. Y. Evans-Wentz ove viene presentato l’uso liberatorio ed illuminante della mente spirituale. Del 1943 è “La psicologia della meditazione orientale”, in cui affronta la natura di Dhyana e dell’assobimento meditativo o Samadhi. Del 1944 è la prefazione al libro di H. Zimmer “La via del Sé” , insieme al suo “Santi Indiani”. Un approfondimento del pensiero cinese ci è donato con la prefazione a “I Ching” del 1948, in cui opera un interessante parallelismo fra la sincronicità e la dinamica del Tao, mentre al 1955 risale il suo su “ K. E. Neumann, I discorsi di Gautama Buddha”. In tutti questi scritti si evince il pensiero portante di Jung sullo Yoga e sulle pratiche taoiste e zen: assorbire il loro orientamento e la loro essenza ed essere cauti con l’acquisizione superficiale delle tecniche specifiche, che a detta dello psicologo non sono adatte per un corpo ed un temperamento occidentale che separa e divide. L’interesse di Jung, all’interno di queste filosofie, era specificatamente teso alla scoperta dell’inconscio e all’affiorare di quei motivi simbolici di natura prettamente soggettiva capaci di traghettare l’uomo lungo il processo d’individuazione. Lo yoga era per Jung :

[…] l’adeguata espressione ed il metodo pienamente adatto (per gli orientali) a fondere insieme corpo e spirito fino a farne una unità difficilmente contestabile, e creando una disposizione psicologica che permette intuizioni trascendenti la coscienza (16).

E prosegue:

In questo ramo sono emersi importanti parallelismi (della psicologia) con lo yoga, specialmente con lo yoga kundalini e il simbolismo del tantra –yoga, del lamaismo e dello yoga taoistico cinese. Queste forme di yoga, con il loro ricco simbolismo, mi forniscono i più preziosi materiali di confronto per l’interpretazione dell’inconscio collettivo (17).

Come afferma Shadmasani, lo scopo di Jung era quello di “sviluppare una psicologia comparata interculturale dell’esperienza interiore e non di assumere la specificità della visione orientale come riferimento univoco per l’evoluzione della coscienza umana” (18). Esprimendo però un giudizio critico su queste posizioni junghiane, e fatta salva l’integrità della specificità che porta l’alterità, si può affermare, senza dubbio che la psiche è difatti plastica e permeabile ai contenuti psichici di altre culture; che questi possono essere assorbiti e rielaborati proficuamente da una mente occidentale; che molti occidentali non sono così separativi, razionali e analitici come ci si aspetterebbe; che il lascito gnoseologico e pratico dell’india, così come quello di altre culture asiatiche, mira a ciò che di universale c’è nell’individuo superando la specificità individuale, così come le barriere spazio- temporali. Secondo Jung, il pensiero occidentale ha necessità di respirare l’atmosfera del pensiero orientale per provare ad arrivare a un senso di integrazione ed unità, portando a compimento le qualità umane. Di un pensiero simile è John J. Clarke che nel suo “Jung e l’oriente” afferma:

È vero che la percezione dell’Oriente da parte dell’Occidente è spesso stata velata dalle nebbie della fantasia e che si è avvalsa di dicotomie semplicistiche, ma ciò è avvenuto con intenzioni per lo più benevole, anzi con la tendenza a idealizzare l’Oriente al punto da attribuirgli una posizione morale di superiorità. La funzione “dell’altro” nel discorso occidentale non è stata quindi soltanto quella di consolidare la propria percezione di sé, di esaltarla e di magnificarla, ma anche di rimetterla in discussione. La scoperta delle idee dell’Oriente […] ha rappresentato un fruttuoso esercizio di auto critica e una lodevole capacità di rinnovamento (19).

Diventa allora importante impostare un nuovo pensiero che sia capace di creare una cultura autenticamente universale grazie alla quale si possano superare i conflitti sociali, politici e intellettuali all’interno di una visione profondamente integrata dello spirito umano.

Nonostante il rapporto, in parte ambiguo e non sempre chiaro, che Jung ebbe con le culture “altre”, si può affermare che egli le abbia amate e rispettate profondamente e si sia accostato ad esse con uno spirito autenticamente ermeneutico e innovativo per il suo tempo, rendendolo capace di indagarne e coglierne l’essenza. Come afferma egli stesso nella prefazione all’ “I Ching”, non conoscendo le lingue orientali si limitò ad affrontare solo brevi trattati, introduzioni, citazioni e scritti ermeneutici alle opere dei vari autori, gettando un ponte fra le culture, per comunicare, rispettandone le differenze. Jung ha dimostrato il coraggio di mettere in discussione i presupposti epistemologici della cultura occidentale, vedendone limiti e imperfezioni; ne ha enucleato i pregiudizi, aprendo così la sua anima ad una visione più ampia, inclusiva ed universale della natura umana. Così lo psicologo, fino in fondo alla propria vita, si è occupato del pensiero e della riflessione orientale operando, nel XX secolo, una prima importante saldatura fra l’Oriente e l’Occidente.

II. LA QUESTIONE DELLA COSCIENZA, DELL’INCONSCIO E DELL’INDIVIDUAZIONE: UN CENTRO DI VITA DINAMICO

 

 

 

 

“Vi sono sogni e visioni caratterizzati

da una tal superiorità che alcuni esitano ad attribuirne

l’origine ad una psiche inconscia,

preferiscono supporre che questi fenomeni

siano dovuti ad una sorta di supercoscienza.

Di fatto questa psiche, che la filosofia indiana

designa come coscienza superiore, corrisponde a ciò che

l’occidente chiama l’inconscio”.

 

 

C.G.Jung

 

 

Jung, come è noto, proviene da una psicologia sperimentale di tipo freudiano. Anche se presto si distaccò dal mandato intellettuale e interpretativo di Freud, mantenne saldo il concetto di inconscio. Però, invece di aderire alla concezione di un inconscio rimosso, che mantiene un ruolo marginale nella psiche di un individuo, postulò la presenza di un suo valore fondante e strutturale: l’inconscio sarebbe una realtà psichica originaria, dinamica e multiforme, da cui si origina l’Io. L’inconscio collettivo è dunque, per il nostro psicologo, il mare magnum in cui galleggia l’anima umana. Attraverso il processo d’individuazione, che implica la capacità simbolica o la funzione trascendente, questa può giungere ad una relativa armonizzazione e conseguire il superamento delle polarità energetiche umane, acquisendo completezza e compimento. La funzione trascendente è difatti la capacità dell’individuo di superare, in una sintesi compiuta, tutte le polarità, integrando e coscientizzando i prodotti inconsci. In questa luce l’individuo può passare da uno stato relativamente disordinato ad uno stato psichico nuovo, uno stato di coscienza più ampio, inclusivo ed equilibrato. Per arrivare a queste posizioni, fattore per nulla marginale, lo psicologo zurighese è passato sempre attraverso un processo ed una constatazione empirica, attraverso la pratica concreta dell’ esperienza psicoterapeutica. Jung ha scoperto che la funzione trascendente, o capacità creativa simbolica, si basa sulla facoltà umana di costruire immagini che riproducono archetipi originari profondamente radicati e sentiti dalla coscienza, fortemente colorati affettivamente; immagini che introducono l’individuo in un processo dinamico di integrazione psichica dell’inconscio e di superamento della mera egoità. Questo è il parallelismo con gli aspetti più profondi della meditazione, della via Yoga all’autorealizzazione, del Taoismo, dello Zen, del Buddhismo.

Il processo di individuazione è quindi ciò che rende l’individuo una unità completa e singola, un tutto integrato nelle sue facoltà e potestà attraverso un confronto tra coscienza ed inconscio. Questo processo di individuazione avviene all’interno della Coscienza che per Jung non è solo individuabile nell’azione dell’io cosciente o di veglia bensì si estende anche alla presenza dell’inconscio e all’evocazione del Sé, che è il centro dell’individualità in accordo alle istanze della coscienza e dell’inconscio: il Sé abbraccia un orizzonte più ampio di vita. Dice Jung:

 

Innumerevoli prove dimostrano che la coscienza è lungi dal coprire la totalità della Psiche. Molte cose accadono in uno stato di semi coscienza e altrettante ne avvengono addirittura in uno stato di incoscienza totale (20).

 

Quindi si può affermare che l’io vigile alberga al centro del campo energetico della coscienza, in un dialogo dinamico con gli accadimenti inconsci da un lato, e le istanze del Sé più completo dall’altro. Jung afferma che per coscienza si intende anche una forma particolare di consapevolezza o “conoscenza complessa”, “una certezza del valore emotivo delle idee e delle motivazioni che sostengono il nostro agire”. Coscienza implica quindi anche la presenza di un atto di valore soggettivo, la capacità del soggetto di riflettere e di giungere ad una considerazione etica della vita. In definita si tratta di una forma di discernimento e di giudizio in cui i contenuti spirituali vengono tessuti con l’esistenza. Spesso questo valori etici vengono intesi come Vox Dei o voce superiore; Jung così lo espone:

 

La coscienza è stata intesa da molti, e fin da tempi remoti, più come un intervento divino che come una funzione psichica; infatti i suoi dettami erano considerati come Vox Dei, la voce di Dio.[…] La psicologia non deve trascurare una tale valutazione, poiché anche questa è una autentica manifestazione di cui assolutamente si deve tener conto, se si vuole trattare l’idea di coscienza da un punto di vista psicologico. […] La coscienza, in qualunque modo fondata, esige dal singolo che egli ubbidisca alla voce interiore anche a rischio di sbagliare. […] Si può pensare dell’ethos quel che si vuole, esso è e rimane un valore interiore, la violazione del quale non è uno scherzo ed ha, alle volte, gravi conseguenze psichiche (21).

 

 

 

La Coscienza si origina quindi da una parte inconscia che la precede e che include non solo i pensieri e l’attività riflessiva, ma i fattori etici, estendendosi così a contenere il tutto psichico di un individuo. La terapia analitica junghiana è un accordo fra queste istanze dell’io, del Sé e dell’inconscio ed il processo di individuazione, che porta ad una integrazione psichica e ad una espansione della coscienza. Quindi il percorso di crescita junghiano cerca da un lato, di ampliare la personalità integrando i complessi e allargando e incrementando la portata della vita conscia, dall’altro di approfondire ed evocare la vita dell’anima dalle profondità dell’inconscio, per cui l’esperienza analitica diventa un processo di assimilazione, integrazione e riflessione meditativa. È la specificazione della ricerca di senso e significato, della presenza di un fine nella propria vita, da Jung individuati nel continuo allargamento della conoscenza e della consapevolezza di sé. Jung, in questo senso, si considera un empirista ed un pragmatico dell’esperienza della coscienza, così come un esoterico che crede nell’occulto e nel paranormale.

La seguente illustrazione vuole evincere il procedere della coscienza: nel campo dell’inconscio staziona il conscio e la dimensione più organizzata dell’io nella sua condizione di veglia. Ciononostante per Jung, non esiste la coscienza in quanto tale secondo una visione generale, ma tutta una scala soggettiva di intensità di coscienza, colorata affettivamente. I contenuti psichici sono stratificati e strutturano la coscienza nella sua totalità evidenziando un passato ancestrale e premonendo un futuro possibile. L’inconscio quindi, come matrice delle potenzialità, ha questa doppia valenza: da un lato conserva le immagini ancestrali della vita dell’uomo, il suo passato; dall’altro propone le immagini del futuro, ciò che con l’evoluzione, sarà. Afferma difatti Jung:

 

L’inconscio ha un volto bifronte: da un lato i suoi contenuti rimandano al passato, ad un mondo istintivo, preistorico e pre conscio; dall’altro esso anticipa potenzialmente il futuro grazie all’istintiva preparazione e disponibilità dei fattori che determinano la sorte dell’uomo […] Lo stesso destino individuale dipende in gran parte da fattori inconsci (22).

 

L’incoscio è dunque una sfera pre-conscia in cui si stratificano le immagini culturali e spirituali di un individuo, che si trova in connessione con l’intera umanità. In questo senso siamo di fronte alla presenza di un inconscio collettivo, condiviso da tutti gli uomini e che si può ben dire sia transpersonale in quanto supera le barriere ed i limiti dell’io individuato. L’inconscio collettivo è quindi per Jung, la casa degli Archetipi, immagini originarie che sono fattori psichici pieni di energia, capaci di ordinare ed orientare la Coscienza, ampliando la vita e le predisposizioni della mente conscia. Jung afferma a proposito:

 

La coscienza è una manifestazione di mana, cioè di una rivelazione dello ‘straordinariamente potentÈ, il che è caratteristica speciale delle idee archetipiche (23).