Nonostante tutto - Materé - E-Book

Nonostante tutto E-Book

Materé

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Beschreibung

Nonostante tutto è una storia di speranza, di duro lavoro, di affetti e di vita. La tenacia della protagonista, e autrice, si mostra nelle molteplici vicissitudini, episodi che si snodano tra le luminose coste della Calabria e la vivace città di Torino, durante un breve periodo trascorso a Piacenza e nella bella, ma non sempre ospitale, cittadina di Trebisacce.
Dopo un primo, tumultuoso matrimonio, accompagnato dall’alternarsi di eventi dolorosi e gioiosi, a seguito di tante fatiche fisiche e morali, Letizia sente di potersi commuovere solo pregando e rivolgendosi alla fede, ma teme di aver perduto per sempre la capacità di lasciarsi andare completamente alla felicità e di emozionarsi.
Sarà davvero così? Cos’ha in serbo l’avvenire?

Materé. Pur senza particolari titoli e specializzazioni, si è fatta strada ed è andata avanti grazie a una mente brillante e ingegnosa, applicando al meglio le sue capacità di sartoria, ricamo, culinaria, pulizie e non solo, senza mai risparmiarsi, scendere a compromessi o accettare sistemazioni di comodo. È madre orgogliosa di tre ragazzi, che ha cresciuto con amore e disciplina grazie al suo innato senso del dovere e alla fede, non sempre incrollabile, ma presente in ogni vicenda della sua vita.a

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© 2022Europa Edizioni s.r.l.| Roma

www.europaedizioni.it - [email protected]

ISBN979-12-201-3114-8

I edizione novembre 2022

NONOSTANTE TUTTO

Capitolo 1

Il fuoco nel caminetto scoppiettava scintillante. La fiamma aveva attecchito bene, in tutta la stanza echeggiava il crepitio ed era inondata dal bagliore rosso delle fiamme con un piacevole odore di legname arso. Dentro la credenza, riposte con ordine in una scatola, c’erano alcuni miei scritti. In più occasioni nel corso degli anni avevo pensato di distruggere quei documenti; pagine tristi del mio passato. Adesso l’idea era maturata in una salda e serena convinzione. Mi alzai dalla poltrona e andai verso il mobile, prestando attenzione al mio equilibrio precario dovuto ai forti dolori alla schiena.

Nello scomparto si erano accatastate un po’ di cose, ma non impiegai molto a estrarla. La poggiai sul tavolo e tolsi il coperchio. Erano lì, impilati e nero su bianco, a testimoniare anni di dolori e fatiche. Non ricordavo di aver scritto tanto. Li sfogliai un po’. C’era tutta una vita là dentro, anche momenti lieti non lo nego, ma soppesando ogni evento ero determinata a dare alle fiamme quei pensieri scaturiti da anni a dir poco difficili. Lo scopo per cui mi accingevo a farlo era molto importante, direi fondamentale. Tornai vicino al caminetto, sedendomi su una sedia lì accanto.

Alcuni fogli riportavano la data. Nella mia vita si sono sempre mescolati momenti felici con avvenimenti tragici, non esitai a gettare nel camino quel primo pezzo di carta e dopo una rapida lettura i ricordi iniziarono a riaffiorare.

Una mia amica mi chiamò “tenaciona” una volta, affascinata dalla mia fede e forza di volontà che, nonostante tutto, mi hanno accompagnata fin dalla nascita.

Sono la terza di sei figli. I miei genitori erano molto uniti, trascorsero otto anni di fidanzamento prima di sposarsi. Un fidanzamento all’antica, dove molte attività, oggi date per scontate, come viaggi o finesettimana al mare, ai tempi loro non solo non erano ammesse, ma neanche pensabili. Affrontarono, inoltre, il chiacchiericcio e le perplessità del paese. Mia madre proviene da una famiglia che è possibile considerare “nobiliare”. Non lo intendo in senso letterale, non mi riferisco a dinastie di conti o baroni, in ogni caso i Costa sono stati per lungo tempo una famiglia di spicco. Già i nonni di mia madre erano proprietari terrieri e vivevano in una certa agiatezza, tant’è che ancora oggi, nel centro del paese, un imponente edificio porta il nome di Palazzo Costa, con menzione specifica negli annali delle nostre terre. Il benessere, tuttavia, non impedì a mio nonno di precluderle gli studi. Prima di sei figli e unica femmina, fu da subito destinata a essere una brava massaia e buona madre, non c’era dunque alcuna necessità che studiasse, a differenza dei fratelli. Mia madre non lo accettò e riuscì a imparare a leggere e a scrivere da autodidatta, mossa dalla rabbia di voler imparare. Copiava le parole e poi le verificava sugli altri libri. Osservava una sua amica che, figlia unica, aveva la concessione di frequentare la scuola. Rubava il sapere con gli occhi, osservando il modo di scrivere e ascoltando l’altra bambina leggere, riuscendo così a decifrare le lettere.

Un altro valido aiuto le arrivò dalla musica. Ancora oggi, in occasione delle feste, è uso che qualche orchestra venga a suonare arie d’Opera quali La Traviata, il Nabucco. Mio nonno raramente le permetteva di andare, ma lei riusciva a reperire i libretti e quindi a esercitarsi nella lettura. Grazie alla sua ribellione al patriarcato, negli anni divenne un punto di riferimento per le signore del paese, i cui familiari erano al nord o all’estero per lavorare. Lei era tra le poche a saper leggere e a rispondere per iscritto alla corrispondenza, in particolare quando capitava di dover dare comunicazioni più riservate, in quel caso il suo aiuto risultava ancora più prezioso, data la sua discrezione. Non si sottraeva al lavoro nei campi, parte integrante della vita di ognuno di noi. Correva sfrecciando in pantaloni sul motorino, suscitando lo stupore e le critiche delle coetanee. Mi immagino le frasi: «In pantaloni? Ma come le viene in mente?». È una caratteristica che ho ereditato anch’io, molto di rado ho indossato gonne. Come tutte le mosche bianche, destava scalpore e qualcuno poteva anche malignare, ma il suo spirito è rimasto impermeabile alle meschinità, tant’è che con il tempo divenne esempio da seguire per molte donne, nonché per noi figli. Mia madre mi è stata, ed è, di grande esempio, un solido punto di riferimento, malgrado qualche occasionale discussione, del tutto normale.

Papà aveva un cuore d’oro. È mancato, purtroppo, ma lo porto sempre nei miei pensieri. Proveniva da una famiglia molto modesta, sapeva giusto scrivere il suo nome, inoltre era invalido civile. Una delle sue gambe era più corta di quattordici centimetri, forse per via di una poliomielite non diagnosticata e di conseguenza non opportunamente curata, ma una volta era una situazione comune per molti.

Con questi presupposti dovettero affrontare gli inevitabili pettegolezzi. Mamma, alta un metro e novanta, giunonica, bella, di famiglia ricca. Papà, claudicante, più minuto, contadino a mezzadria.

«Che avrà combinato la figlia di Costa per mettersi con quello lì?»

«Certo che una Costa poteva ambire a una sistemazione migliore»

«Le basta poco per contentarsi».

Non si è accontentata. I miei genitori erano legati da un amore autentico e non consideravano le piccinerie umane che avevano d’attorno e hanno trasmesso i valori di questa salda unione ai loro discendenti, dimostrando di essere al di sopra dei pareri della gente e di preferire la sostanza all’apparenza. È stato così anche per me, ma è stato necessario fare il mio percorso.

Caparbi entrambi fino al midollo, mi hanno dotata della stessa testardaggine, che ho iniziato a mostrare fin dalla nascita. Dei sei figli, io sono stata l’unica inattesa. Papà era partito per lavorare in Svizzera e inviare qualche soldo in più alla famiglia. Di solito la scelta ricadeva su una destinazione dove fosse presente un familiare o un compaesano, non solo per avere compagnia, ma anche per praticità. Nel caso di mio padre era il problema alla gamba, necessitava di assistenza per indossare calzini e scarpe. Si era così recato a Zurigo, dove uno dei suoi fratelli lavorava in un cantiere edile.

«Ti presento io» gli promise.

Il capocantiere lo vide arrivare con il suo andamento incerto, lo scrutò da capo a piedi e gli domandò: «Ma è in grado di lavorare? Il lavoro è pesante, ce la fai con quella gamba?».

Mio papà era un uomo molto buono, ma troppo spesso aveva subito mortificazioni a causa della sua condizione. Le umiliazioni, ripetute negli anni, incattiviscono anche l’animo più mite. Già in paese era capitato di offrirsi gratuitamente per una giornata di lavoro per dimostrare la capacità fisica e sebbene limitato nelle gambe, aveva sviluppato un torace possente e braccia muscolose, tant’è che quando doveva potare un albero si aggrappava a un ramo e si tirava su con disinvoltura e agilità.

Non saprei dire con esattezza cosa fece scattare l’ira in mio padre, immagino uno sguardo tra il beffardo e il pietoso del capocantiere mentre lo interrogava, forse qualche risata di scherno degli altri operai dattorno, unite a commenti borbottati ma comprensibili almeno nel significato poco lusinghiero. Lui lì, presentatosi dopo un viaggio lungo ed estenuante per rimboccarsi le maniche e provvedere alla sua famiglia, doveva subire ancora una volta, denigrato nel corpo e nello spirito. Certo, io non esistevo ancora e le mie sono supposizioni, sta di fatto, però, che le cose degenerarono e portarono mio padre a reagire impulsivamente lanciando un pesante attrezzo addosso al capocantiere, colpendolo probabilmente alla testa.

«Disgraziato!»

«Gliel’ha tirato lui! È stato lui!».

Si sarà sollevata una polemica del genere, aggravata dallo stigma che, per molti anni, anche successivi ai tempi di mio padre, ha accompagnato noi gente del sud. Dipinti spesso come gretti, chiusi nel proprio mondo e privi di educazione.

A seguito di questo tafferuglio, il fratello gli suggerì di tornare in Italia, dalla famiglia, e attendere che le acque si calmassero. Aveva impiegato due giorni e mezzo di viaggio per arrivare in Svizzera e altrettanti furono necessari al ritorno. Una volta a casa, posso supporre l’immensa felicità nel rivedere mia madre, gioia che portò alla mia nascita nove mesi più tardi, nonostante mamma avesse imparato a tener conto sul calendario dei periodi in cui fosse più facile rimanere incinta.

In seguito, papà ripartì per tornare a lavorare, ma fu l’ultima volta. Infatti, a seguito della mia nascita non si recò più all’estero, seguendo un vecchio detto delle nostre parti: “picca pane e picca paternosci a casa tua”. I “paternosci” sono le preghiere che si recitano col rosario. Almeno si sarebbe risparmiato crudeltà come quelle vissute in Svizzera.

Mamma ha annotato un pensiero alla nascita di ciascun figlio e volle ricordare la mia con poche e sentite righe: “Oggi è nata la nostra terza stella, Letizia, molto cara, così bella”.

Avevo pochi mesi, rifiutavo il latte materno, dando ai miei genitori l’oneroso compito di trovare il latte in polvere. Erano gli anni Sessanta e nel nostro piccolo centro non sempre era facile reperire tutto, tra questi il latte artificiale e il biberon. Papà era costretto a spostarsi per diversi chilometri per riuscire a trovarlo e anche una volta portate a casa le scorte, la situazione non migliorò, almeno non nell’immediato. Nessuno ha mai saputo identificare la causa, sta di fatto che a un certo punto iniziai a rigettare e soffrire di dissenteria sempre più di frequente. Non capirono se si trattasse di un’intolleranza al latte oppure di una mancata o inefficace sterilizzazione del biberon, cui mamma provvedeva facendo bollire in acqua la bottiglia e la tettarella. Il medico fu chiaro, si trattava di gastroenterite ed essendo molto piccola rischiava di essermi fatale. Occorreva intervenire subito.

Papà, nonostante la disperazione, non indugiò un minuto di più e si procurò una vettura a noleggio con autista: in paese ce n’erano solo due per gli spostamenti più lunghi. Decise che mi avrebbe portata in ospedale, non si sarebbe arreso senza fare almeno un tentativo. Durante il tragitto, con il cuore in gola, mia madre mi teneva tra le sue braccia e controllava che respirassi ancora. Arrivati, corsero all’entrata e mi ricoverarono.

«Il dottore ha detto che è gastroenterite, che ha qualcosa alla pancia!»

«Vomita e ha la diarrea, non riusciamo a fermarla, vi prego aiutateci!»

«Lasciate fare a noi, attendete qui, vi faremo sapere al più presto» tentò di rassicurarli quello che, presumo, fosse l’infermiere o l’inserviente di turno.

Durante la notte mi bombardarono con ogni tipo di antibiotico possibile e, vuoi l’immediata reidratazione, vuoi che nei vari tentativi mi somministrarono il farmaco giusto, non trascorse molto tempo e migliorai fino a guarire. Mia madre mi aveva assistita mentre medici e infermieri si erano affaccendati e al mattino vide arrivare mio padre che usciva dal reparto medicina uomini, dov’era stato ricoverato in passato, con aria un po’ furtiva e spaesata, esausto dopo la lunga notte di tensione e preoccupazione.

«Cosa ci fai già qui? Perché esci da quel reparto?»

«Ho dormito lì, mi sono nascosto e ho preferito rimanere in ospedale».

«La vostra bimba sta bene adesso» comunicò uno dei medici, sopraggiungendo in quel momento.

I miei genitori furono subito sollevati.

«Vostra figlia è di fibra forte e ha carattere. Nonostante i pochi mesi, sembrava essere già molto determinata a vivere, ha risposto benissimo alle cure. Se avete bisogno siamo qui, ma non sarà necessario, ne sono certo».

In base a quanto mi hanno raccontato, posso dire di essere stata tenace fin da subito.

Durante i mesi invernali abitavamo in paese. Mamma mi lasciava dai nonni quando andava nei campi, sempre in pantalone e motorino. Ho legato molto con la nonna materna, su cui vegliavo la notte, sapendo che soffriva di cuore. Ero mossa dall’ingenuità infantile e pensavo che toccandole un braccio o la fronte potessi accertarmi che stesse bene. Ero molto vicina anche al nonno paterno che, come papà, era un tenerone. Con lui giocavo e mi divertivo, amavo soprattutto il periodo estivo, quando dal paese ci spostavamo nei casolari in campagna. Non erano molto grandi ed erano antichi o perlomeno di antica concezione, al punto che i servizi erano esterni all’abitazione. Mio padre e i suoi fratelli, così come i genitori, avevano acquistato quelle porzioni di terreno dove avevano lavorato a mezzadria per anni. Il proprietario, al momento della vendita, diede loro diritto di prelazione, così acquisirono sei lotti di terre, dove ci ritrovavamo tutti insieme durante i mesi estivi. Fratelli e sorelle, cuginetti, nonni, zii e zie radunati in quel posto meraviglioso, sotto un cielo azzurro vivo, dove il sole caldo dorava il grano e faceva risplendere il grigio verde delle chiome degli ulivi secolari, disposti in file sul campo. Ricordo con piacere anche gli alberi da frutto, in particolare fichi e albicocchi. I frutti erano dolci e cremosi, merito del clima tiepido e asciutto di quelle parti. Senza false modestie, mi intendo di frutta e verdure, e quelle di oggi raramente raggiungono la qualità di quelli che crescevano nei terreni di famiglia. Di tanto in tanto adottavamo famigliole di ricci che ci tenevano compagnia per una stagione. La cagna che avevamo, di quelle addestrate per la ricerca dei tartufi, era stata abituata a scovare i ricci senza far loro del male, in molti dalle nostre parti li catturavano per poi cucinarli e farne il sugo. Pare sia una prelibatezza, ma noi non ci abbiamo mai provato. Aspettavamo che nascessero i cucciolini, li vedevamo crescere e scorrazzare nelle nostre terre, poi un giorno andavano via e, da quel momento, raramente li avremmo rivisti. La cosa ci stava bene così, la vita di campagna ha regole diverse rispetto a quella della città.

Insieme a mio fratello maggiore Giuseppe, invece, ci arrampicavamo sugli alberi per tenere d’occhio la schiusa delle uova nei nidi. Una volta, tastando per controllare, si è ritrovato con un serpente in mano che ha prontamente scaraventato.

«Si aprono, si aprono! È ora!» sussultavamo quando si vedeva giunto il momento.

Nostro padre, anche nella casa in paese, aveva l’abitudine di allevare passerotti. Li prendeva piccolini e spuntava loro le ali per impedirgli di spiccare subito il volo, in modo che si affezionassero a noi. Così i vari “Ciccio”, per noi i passerotti si chiamavano tutti Ciccio, una volta ricresciute le penne erano liberi di volare ovunque, ma tornavano sempre a casa. Una volta papà addomesticò una gazza ladra e con lei si assicuravano le risate. Questa gazza, come sua natura, rubava il ditale da cucito della nonna e puntualmente lo andava a nascondere nella ciabatta del nonno. Appena alzato la infilava e gridava: «Pasqualina! Vieni qui, vieni a vedere cos’ha combinato quella disgraziata! Cercavi il ditale? Eccolo qui!». E noi nipoti a ridere, vedendo la gazza che svolazzava e salterellava ora su una mensola, ora su una cassettiera, quasi a volersi beffare dei due poveri malcapitati.

Guardavo bruciare quel pezzo di carta, diventato ormai un ricciolo di cenere scura. È difficile spiegare come un brutto ricordo possa invece suscitarne di divertenti, ma la mia vita è stata così, una felicità spesso sporcata. La data di quel foglio mi aveva fatto ripensare alla vita che ho avuto prima di incontrare lui, alla serenità della mia vita domestica, quando ancora c’erano tutti i miei fratelli.