La ragazza della Valle del Salto - Terry Salvini - E-Book

La ragazza della Valle del Salto E-Book

Terry Salvini

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Beschreibung

Mentre il fiume Salto si trasforma a poco a poco in uno specchio d’acqua, allagando la sua valle, Evelina allarga i propri orizzonti: ai familiari e agli amici d’infanzia aggiunge nuove conoscenze, alla calma vita di paese alterna quella vivace della Città Eterna. Il tutto sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, con scenari già entrati nella leggenda: la Battaglia d’Inghilterra, la Campagna di Russia, la Resistenza.
Un indomito pilota della Raf, un coraggioso fante italiano e un colto ufficiale tedesco spingeranno la ragazza a crescere in fretta e a fare i conti con uno dei periodi più tragici della storia recente, oltre che con la propria coscienza. L’anima di Evelina però non è solida come il cemento della diga che argina il fiume e il turbinoso scorrere degli eventi rischia di travolgerla.

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Terry Salvini

La ragazza della valle del salto

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Indice dei contenuti

Terry Salvini

La ragazza

Note dell’autore

Prologo

1

2

3

4

5

6

7

8

9

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31

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33

34

Epilogo

Ringraziamenti

Note

Terry Salvini

La ragazza

della Valle del Salto

“La ragazza della Valle del Salto ”

Terry Salvini

© 2022 Aporema Edizioni

www.aporema.com

Questo romanzo è un’opera di fantasia e quando si riferisce a personaggi realmente esistiti, il loro ruolo, le loro parole e loro azioni sono da intendersi come interpretate dall'autore ai fini della narzione e non rispecchiano necessariamente l'esattezza storica.

A mio padre,

che se n’è andato troppo presto.

A mia madre,

che mi è sempre vicino.

.

Note dell’autore

Per la traslitterazione del cirillico non esiste una regola unica;il nome di una località russa lo potrete trovare scritto in modi differenti, anche in base alla lingua nella quale è stata traslitterata. Esempi: Bogutschar (Bogučar), Verchnij Mamon (Verkhe Mamon o Verche Mamon), Krasno Orechowo (Krasno Orechovo), Swinjucha (Svinjuka), Kharkov(Char’kov ma anche Charkiv) e così via.

Il dialetto della Valle del Salto, spostandosi da un paese all’altro, subisce piccole variazioni.Ne ho comunque limitato l’uso al minimo indispensabile, inserendolo solo nei primi dialoghi,per evitare di appesantire la lettura; lo stesso dicasi per le lingue straniere: russo, tedesco, rumeno. Mi scuso per eventuali inesattezze.

Sempre per rendere la lettura più scorrevole e non doversi soffermare troppe volte sulle note, ho cercato di usare poco i codici che i piloti della R.A.F. adottavano durante i combattimenti aerei.

In fondo al libro ho inserito alcune cartine, relative alla Valle del Salto, alla Battaglia d’Inghilterra e alla Campagna di Russia.

Prologo

Valle del Salto, 20 aprile 1937

La ragazza appuntò l’ultimo filo di lana sulla testa della bam bola di pezza, ne sistemò il vestitino spiegazzato e osservò il risultato di tanta fatica. Sollevò lo sguardo verso la madre, che, distesa sul letto, stava rileggendo per l’ennesima volta il solito libro.

«Ti piace?» domandò mostrando il proprio lavoro.

«Bellissima!» le rispose, interrompendo la lettura. «Sei stata davvero brava. Io non avrei saputo cucirla meglio» commentò poi in un italiano quasi perfetto, dalla cadenza sarda.

Evelina sorrise felice: l’approvazione dei genitori per lei valeva più di un bel voto a scuola.

«Oggi stai meglio, vero?» Il viso della mamma sembrava più disteso, meno pallido dei giorni precedenti: in più aveva anche ripreso a leggere!

«Sì, il dolore si è calmato.»

«Quando papà lo verrà a sapere sarà contento. Gli scriverò una lettera oggi stesso, dopo che sarò tornata da...» La frase le morì in gola: l’orologio sopra il comodino segnava le tredici.

Saltò dalla sedia. «Oh, Madonna mé! Ata ji a piglià Marianna! [1]» esclamò in dialetto.

Con la bambola stretta in una mano, lasciò di corsa la camera, attraversò la sala da pranzo, la cucina e uscì, accompagnata dal profumo del cibo che cuoceva nella cottora [2].

La casa a due piani, costruita in pietra su un terreno digradante e con il tetto in tegole, si trovava molto fuori dell’abitato. Per raggiungere la scuola elementare doveva percorrere un lungo pendio e arrivare fino al centro del paese.

Affrettò il passo, con la speranza di arrivare in tempo.

La primavera stava ricoprendo gli alberi di verde e i primi fiori facevano capolino tra i trifogli, lungo i bordi del sentiero, ma quel giorno il sole non aveva intenzione di farsi vedere. Quando una folata di vento le sferzò il corpo, sollevando l’orlo della gonna, rabbrividì: nella fretta di uscire aveva dimenticato di prendere il giacchetto.

Vicino alla chiesa del santo patrono, San Michele Arcangelo, un ragazzetto in bicicletta le venne incontro, sulla canna era seduta la sua sorellina, che aveva i capelli rosso fuoco, proprio come i suoi, e indossava la divisa scolastica.

«Ancora si’ qui? Marianna è già escita [3]» la rimproverò lui con tono beffardo, passandole accanto.

Evelina gli lanciò un’occhiataccia e iniziò a correre: ’U Rusciu [4] non sarebbe cambiato mai.

« Curri, curri [5] pure... che mo’ arrivi!» si sentì gridare dietro, con una risata sguaiata.

Proseguì spedita senza mai fermarsi, fino a quando arrivò davanti al cancello della scuola.

«Oh, no! Ègià chiuso...» mormorò battendo un piede a terra, come era solita fare ogni volta che qualcosa la stizziva.

Guardandosi intorno, con il respiro affannato, vide soltanto alcune donne che, bambini alla mano, parlottavano tra loro; poco più in là un carretto, trascinato da un mulo, stava riportando a casa il figlio del compare Antoniucciu.

Di Marianna nemmeno l’ombra.

Trattenendo il fiato, provò a concentrarsi: se non l'aveva vista durante il tragitto, voleva dire che la sorella non era passata di lì. E c’era solo un altro sentiero che poteva aver preso: quello che portava al cantiere del nuovo ponte.

Lo imboccò in tutta fretta, infischiandosene del fatto che una ragazza ben educata non avrebbe dovuto correre alla maniera di un maschiaccio.

Dopo pochi minuti, si ritrovò nei pressi del fiume Salto: ne percepiva l’odore e il lieve gorgoglio dell’acqua, che in alcuni punti scorreva su grossi ciottoli.

La rada vegetazione di quel tratto ora le permetteva di avere una più ampia visuale, tuttavia non riusciva ancora a scorgere la sorellina.

Un lampo di luce illuminò il cielo grigio e il tuono che seguì le provocò un leggero fischio alle orecchie; di lì a poco alcune gocce d’acqua le caddero sul viso. Doveva fare ancora più in fretta o la pioggia forte l’avrebbe colta allo scoperto, pensò mentre riparava la bambola di pezza sotto al maglione. Marianna non doveva bagnarsi o si sarebbe raffreddata col vento che tirava. Accelerò la falcata e soltanto quando in lontananza riconobbe la figura della bambina dai capelli lunghi e scuri che trotterellava vicino alle rive del fiume, rallentò l’andatura.

In quel punto, un gruppo di operai era impegnato nella costruzione dell’altissimo e lungo ponte che avrebbe unito le due sponde, in sostituzione di quello vecchio, molto più corto e basso. Un cantiere non era di sicuro un posto adatto a una bambina.

«Marianna! Marianna!» chiamò a gran voce.

La piccola si voltò, la salutò agitando in aria una manina, poi le fece segno di seguirla e riprese a camminare.

«Spetteme [6], Maria’!» gridò.

La sorellina arrivò vicino al ponte e guardò in alto. Un uomo le si avvicinò: portava un casco con la visiera, sotto il quale spuntavano ciuffi di capelli biondi, e impugnava un fascio di fogli. Evelina lo vide parlare con la piccola, ma a quella distanza non riusciva a cogliere le parole.

In pochi istanti li raggiunse.

«Maria’, m’ata spetta’ ‘nnanzi alla scòla [7]» la rimproverò, col fiato corto.

La bambina voltò il capo. «Ti ho detto che sono grande, ormai: posso tornare a casa da sola.»

«Eh già! E proprio a casa t’ho trovata!»

«Io volevo solo vedere il ponte...» piagnucolò.

«Lo vedrai quando è terminato. Non puoi venire qui, potresti farti male.»

«Tua sorella ha ragione, sai?» intervenne il biondo, scandendo le parole con un forte accento del nord. «Qui è pericoloso per te. E poi, lo vedi quant’è brutto adesso? Una volta terminato invece...» e le strizzò l’occhio.

«Ma io mica voglio che lo finite!» protestò Marianna.

«E perché? Che è ‘sta novità?» domandò Evelina.

La piccola assunse un’espressione triste. «Una compagna di classe dice che noi affogheremo dentro casa, appena finiscono il ponte.»

Sul viso dell’uomo si manifestò prima sorpresa, poi compassione, mista a ilarità. «Non annegherà nessuno, stai tranquilla» la rassicurò lui, dandole un buffetto sulla guancia.

Dunque Marianna era arrivata fin lì per accertarsi che il ponte fosse ancora incompleto, non per semplice curiosità, pensò Evelina scuotendo il capo.

Le si inginocchiò davanti per stringerle la mani.

«La tua compagna è una stupida. Quelle cose le ha dette per prenderti in giro. Non darle retta.» Lo sguardo della sorella le sembrò poco convinto e allora cambiò tattica: «Piuttosto, oggi è il tuo compleanno: non vorresti sapere cosa ti ho preparato per regalo?» Si portò una mano sotto la maglia e la mosse.

La bambina increspò le sopracciglia per la curiosità e appena vide la bambola fece un piccolo saltello. «Che bella!» esclamò con tono quasi stridulo, strappandogliela dalle mani.

La strinse a sé, poi buttò le braccia al collo della sorella e le riempì la guancia di piccoli baci.

Evelina si staccò, ridendo.

Le gocce diventarono una sottile pioggerella.

«Mo’ corriamo a casa, sennò ci bagniamo tutte.»

Prese per mano la bimba e si congedò dal forestiero.

«Allora tanti auguri, Marianna» disse l’uomo, salutandola con la mano.

Varcata la soglia della cucina, le due sorelle trovarono ad attenderle Adele e la solita faccia scura del fratello, una faccia da schiaffi per la maggior parte di quelli che lo conoscevano.

«Adesso tu salterai il pranzo!» sbraitò lui rivolto a Evelina. «Così impari a fare le cose per tempo.»

«Ho tardato solo di poco... dovevo finire il regalo di Marianna.»

La piccola mostrò la bambola. «Sì, guarda che bella, Nerio.»

Lui rise con sarcasmo. «Sì, come no? Bellissima! Starebbe bene in mezzo al campo, a spaventare gli uccelli.» L’afferrò brusco e con le dita le scompigliò i capelli di lana, guardando la sorella con una smorfia più grottesca che buffa.

«Tu sei brutto, lei è bella» replicò la piccola, riappropriandosi del regalo, le lacrime agli occhi.

«Vedi di lasciarla in pace una volta tanto, soprattutto oggi che è il suo compleanno» intervenne Adele.

Nerio tentò una difesa. «Lavoro come uno schiavo. Ho diritto di mangiare subito, quando torno a casa.»

« Io lavoro come una schiava, tu vai soltanto dietro alle pecore. E se non fosse per i cani...» s’interruppe e abbassò il tono della voce. «Di là c’è mamma: non voglio che ci senta discutere e le vada di traverso il pranzo che le ho appena portato. Adesso mettiamoci a mangiare anche noi.»

Il pasto fu breve, silenzioso.

Adele per quel giorno speciale aveva preparato le fettuccine al sugo perché piacevano tanto a Marianna, che ne mangiò a sazietà. A Evelina invece, per colpa del fratello, era passato l’appetito.

Quando la torta arrivò in tavola, si sentì bussare alla porta.

«Vado a vedere chi è» si offrì Nerio.

Appena aprì la porta, sbuffò. «È Saverio» disse voltandosi verso le sorelle.

Evelina si alzò subito. «Saverio, vieni, accomodati. Arrivi giusto in tempo per la torta.»

Il ragazzo entrò con un sorriso imbarazzato. «Scusate, non sapevo che foste ancora a tavola.»

«Ringrazia la tua cara Evelina» brontolò con sarcasmo Nerio, scostandosi per lasciare passare l’ospite.

L’ospite aveva le scarpe sporche di fango e indossava un paio di pantaloni spiegazzati, con alcune vistose macchie biancastre. «Ho avuto un po’ da fare a Teglieto» si scusò lui abbassando lo sguardo sui propri abiti, «e visto che passavo di qui, prima di tornare a casa ho pensato di venire a dare gli auguri a Marianna.»

«Hai fatto benissimo, sono contenta. Entra.» Evelina lo fece accomodare tra lei e la bambina. «I neo sposi come stanno?» gli domandò.

Saverio fece spallucce: «Loro benissimo.»

«E tu, invece?»

«Un po’ stanco. Mia sorella riesce a farmi lavorare per lei anche a distanza. Speravo che una volta sposata e andata via mi lasciasse stare, invece...»

«Dal momento che per arrivare da lei, a Teglieto, devi passare qui vicino, la cosa a me non dispiace per niente» confessò con tono provocatorio.

Adele aggiunse un piattino, poi posò una candela sul dolce, ma fece appena in tempo ad accenderla che Marianna ci aveva già soffiato sopra. Non si trattava proprio della classica torta di compleanno, con tanto di panna e ciliegine, ma di una sorta di pizza, morbida e alta, con della crema in mezzo e sopra una spolverata di zucchero. Era già molto per le loro possibilità.

«Dai, tagliala, sbrigati!» la esortò la bambina, battendo le mani insieme agli altri.

Dopo aver servito le persone al tavolo, Evelina prese l’ultima fetta di dolce e lasciò la cucina. Superata la sala da pranzo, spalancò la porta della camera.

«Guarda un po' cosa ti ho portato» disse, avvicinandosi al letto illuminato da un raggio di sole che entrava dai battenti semiaccostati.

La madre aveva gli occhi chiusi e un’espressione serena, la mano sul grembo reggeva il libro ancora aperto, sempre lo stesso, ‛Fontamara’ di Ignazio Silone, l’unico presente in casa, dono di un cugino emigrato all’estero. Un romanzo da tener nascosto perché considerato avverso al regime fascista.

Dev’essersi addormentata mentre leggeva. Colpa delle medicine. Ma passerà. Certo che passerà.

Con la mano libera le scostò un ciuffo di capelli bruni dalla fronte, chiuse il libro e lo posò sul comodino.

Tornò in cucina. «Mamma dorme» disse ad Adele, poggiando il piattino sul ripiano della credenza. «Ci riprovo più tardi.»

Terminata la torta, Nerio si stravaccò sulla sedia a dondolo, si tolse gli scarponi e poggiò i piedi, coperti da calzini usurati, sul bordo del caminetto ormai quasi spento. Evelina sventolò una mano davanti al naso. Trattenendo a stento un commento alla sua rozzezza, iniziò a sparecchiare.

«Io vado, ti lascio alle tue faccende» disse Saverio alzandosi.

«Se aspetti qualche minuto possiamo fare una passeggiata giù al fiume. Tanto ha smesso di piovere.»

Cercò con lo sguardo la sorella maggiore, per chiederle il permesso di uscire subito, ma non la vide. Nerio già russava con la testa reclinata da un lato, mentre Marianna giocava con la bambola. Stava per riporre la tovaglia nel cassetto, quando Adele tornò in cucina.

«Prendi il secchio, Evelina, e vai a dar da mangiare ai maiali. Controlla pure se ci sono uova nel pollaio» le disse, con voce stanca.

«Ma non lo hai già fatto tu?»

«Non ne ho avuto il tempo.» Le allungò il secchio con dentro gli scarti di cibo, poi si avvicinò alla più piccola. «Vai con tua sorella, così le dai una mano.»

«Vengo anch’io» si offrì Saverio.

Il trio uscì, scese la scala di pietra e si diresse verso il recinto dei porci, poco distante. Alcune pozzanghere rendevano il breve percorso disastrato, ma osservando il sentiero che portava verso i campi e al fiume, Evelina notò con sollievo che questo era più agevole.

«Aspettate qui» disse alla sorellina e all’amico. «Non c’è bisogno che ci sporchiamo tutti.»

Procedette con cautela, aggirando le pozze melmose; una volta arrivata al recinto tirò via il paletto di legno e spinse il piccolo cancello. Fu accolta da grugniti e schizzi di fango.

«Mannaggia!» imprecò, guardandosi la gonna macchiata. «Statenne fitti [8]!» proseguì, come se quelle bestiole potessero capirla. Rovesciò il contenuto del secchio nella mangiatoia e uscì in fretta, richiudendo il cancello. Percorso qualche metro entrò anche nel pollaio, dove trovò soltanto due uova.

«Fate le pigre, eh?» commentò sorridendo.

Tornò indietro.

«Ora che abbiamo finito, possiamo anche andare a fare la nostra passeggiata» disse a Saverio, posando il secchio a terra e le uova su una grande foglia, lì accanto.

Scesero ai piedi della valle, camminando l’uno accanto all’altro. Ogni tanto Marianna rompeva la riga per raccogliere qualche fiorellino o per rincorrere una farfalla dai colori brillanti. Nell’aria si sentiva odore di terra umida e un vago sentore di campi concimati.

Si fermarono sulla riva del fiume, in un punto abbastanza lontano dal cantiere da non esserne disturbati.

Evelina fece correre lo sguardo sul sinuoso corso d’acqua rilucente. Quel luogo era il suo rifugio, nei momenti più brutti, e un campo giochi, in quelli più belli.

Con la coda dell’occhio notò cadere qualcosa dall’alto.

Esaminò il terreno e vide un piccolo di poiana che cercava di sollevarsi muovendo le ali come un forsennato. Lo raccolse con delicatezza e lo tenne nel palmo della mano.

«Dobbiamo rimetterlo sul nido o morirà» suggerì Saverio. Alzò lo sguardo. «Sarà scivolato da lassù» proseguì indicando uno dei rami sopra le loro teste.

«Non so arrampicarmi fin lì.»

«Ti insegno come si fa.»

Evelina assentì eccitata.

Saverio le mostrò dove puntare i piedi e come aiutarsi con le braccia per tirarsi su. Lei cercò di memorizzare ogni sua mossa per evitare una brutta figura, anche perché non era ancora mai salita su un albero. Le piaceva mettersi alla prova.

Nel giro di pochi minuti, il piccolo fu nel suo nido, accanto agli altri della famigliola.

La ragazza provò a raggiungere l’amico, seguendo attenta le sue indicazioni. Non era facile arrampicarsi con l’ingombro della gonna. Quando puntava il piede sul tronco ogni tanto l’orlo le finiva sotto la punta della scarpa costringendola a tornare al punto precedente. La sua cocciutaggine ebbe però la meglio, anche se le provocò qualche graffio alle gambe.

«Mettiti seduta su quel ramo, questo dove sono io non riuscirebbe a reggerci tutti e due» le consigliò Saverio.

Una volta al sicuro, Evelina si rilassò respirando l’aria fresca a pieni polmoni, come se avesse paura che di lì a poco non potesse più farlo.

Abbassò per qualche istante le palpebre e vide Marianna che stava riunendo tutti i fiorellini raccolti in un mazzetto. Quando tornò a guardare Saverio, lo sorprese a osservare una foglia.

«Hai gli occhi dello stesso colore» disse, strappandola dal ramo. «Verde... con sottili sfumature dorate.»

Evelina lo guardò compiaciuta. Non credeva che lui fosse tanto attento da individuare i minimi particolari del suo aspetto. « È la prima volta che me lo dici.»

Lo vide sorridere e scrollare le spalle. Dopo qualche attimo di silenzio continuò. «Sai, mi piace star qui in cima, così, insieme a te. Mi fai sentire serena.»

«Lo avevo capito già da tempo.»

Lei annuì. Quell’albero era il loro punto d’incontro, un luogo dove ritrovarsi per passare un’oretta insieme, fuori dal controllo degli adulti. Lo chiamavano “ l’albero dell’amicizia!”.

«Che cosa c’è?» gli domandò, notando che il ragazzo aveva di colpo cambiato espressione.

«Niente! Dovrebbe esserci qualcosa?»

«Ti conosco troppo bene. Che ti passa per la testa?»

Saverio abbassò lo sguardo e rimase in silenzio qualche istante, come per soppesare le parole prima di rispondere.

«Non so se ho capito bene, spero di no, ma ieri ho sentito lo zio dire a papà che hanno iniziato a costruire una diga anche qui, sul fiume Salto, come stanno facendo sul Turano.»

«Ma che dici! E che ne sa tuo zio?»

«Lavora al comune ed è ben informato.»

«Ti stai prendendo gioco di me?»

«Per niente. Pensaci bene: non hai fatto caso a quanti operai ci sono in giro? Non ne ho mai visti così tanti in vita mia.»

«Sì, è vero, ma stanno facendo parecchi lavori qui intorno...»

«Non ti chiedi che necessità ci sia di costruire un ponte così grande?»

Negli ultimi tempi Evelina aveva notato che stavano facendo anche una strada a monte dell’abitato, insieme ad alcuni nuovi edifici.

«Forse perché vogliono una via più veloce che unisce lì» col pollice indicò il versante della collina alle sue spalle «a lì» con l’indice quello davanti a sé. «In modo da non essere costretti a passare per il paese, come si fa adesso.»

«Certo, ma perché farlo tanto alto?»

«Non lo so.» Si soffermò a pensare, toccandosi il lobo dell’orecchio, dove spiccava un piccolo cerchio d’oro.

Una diga! Sapeva grossomodo che cos’era, in paese qualcuno aveva accennato a quella in opera sul Turano e lei era corsa a chiedere spiegazioni al padre.

Spalancò gli occhi.

«Mi stai dicendo che questa terra sarà inondata? Che tra non molto non potremmo più nemmeno incontrarci qui, al nostro albero?»

Saverio annuì con aria contrita. «Appena posso andrò a vedere con i miei occhi se è vero. I lavori per adesso dovrebbero essere ai Balzi di Santa Lucia.»

Evelina scosse la testa. Anche se si allontanava di rado dal paese, niente le aveva fatto sospettare che stessero allestendo qualcosa di gigantesco come una diga.

«Non ci credo...» s’interruppe ripensando alle parole della sorellina: “Una compagna di classe dice che noi affogheremo dentro casa, appena finiscono il ponte”.

Forse Saverio diceva la verità.

«Ehi!» fece Marianna dal basso. «Voglio salire anch’io.»

Evelina sospirò e si protese. «No, stai lì, ché adesso veniamo giù noi.»

Saverio si calò con agilità, poi alzò lo sguardo e allungò le mani verso l'alto. «Dai, scendi! Non aver paura.»

«La fai facile, tu!» gli rispose. Nel notare la sua espressione divertita, si indispettì. Ora ti faccio vedere io, se ho paura!

Posò il piede sul ramo in basso e aggrappandosi a ogni nodo sporgente che incontrava, iniziò a scendere più in fretta di quanto la cautela le suggerisse. D’un tratto perse l'equilibrio, tentennò, si tenne come poteva a qualunque appiglio possibile, infine cadde su Saverio, che rovinò a terra.

«Porca vacca!» imprecò lui.

Evelina puntò i gomiti e si sollevò a guardare i suoi occhi grigi come il piombo, le labbra sottili sorridenti e il mento con al centro una simpatica fossetta. Un viso aperto, sempre pulito. Quando lo vide aggrottare la fronte rotolò al suo fianco ridendo.

«Meno male che non ti sei fatto male.»

«No, ma accidenti… non pesi mica poco!»

«Solo perché tu sei magrolino» ribatté lei, pizzicandogli un fianco.

Dopo un attimo di sconcerto, Saverio ridacchiò.

«Hai ragione.» Si tirò su la maglia per iniziare a contare le costole, seguendo il profilo con le dita. «Una, due, tre, quattro...»

«Ma dai, smettila!» esclamò Evelina, cercando di rimanere seria, senza riuscirci.

Di nuovo in piedi, si sistemò un lungo ciuffo di capelli sfuggito al fermaglio, si ripulì la gonna, prese per mano la sorella e percorse il sentiero a ritroso, al fianco dell’amico.

Giunti in prossimità della casa, videro un uomo scendere le scale e attraversare il cortile: appena riconobbe il medico del paese, sentì il cuore compiere un salto e ricadere con un colpo secco, per poi rimbalzarle in gola.

Strinse la mano di Saverio quasi a fargli male. Lui la guardò confuso, poi sembrò capire e quando lei lasciò la presa, non tentò di trattenerla.

Evelina si precipitò in casa. Nel notare che la sorella aveva gli occhi arrossati dal pianto, corse verso la camera della madre; ma Nerio la fermò prima che la raggiungesse.

«Mamma!» gridò lei, battendo i pugni contro il petto del fratello, mentre l’aria all’improvviso sembrava non essere più sufficiente per respirare.

«Mamma… Mamma… Perché...»

1

Essex, 12 agosto 1940, ore 1,30 a.m.

Disteso sulla branda, George Bradley non riusciva a prender sonno. Gocce di sudore freddo scendevano dalla fronte per annegare tra i capelli biondo ramato.

Un’altra fottuta giornata passata sui cieli della Manica.

La peggiore per lui da quando aveva iniziato a volare.

L’immagine dell’amico incastrato nella carlinga, che disperato cercava di lanciarsi, prima di essere divorato dalle fiamme, lo perseguitava. Seguitava a vederlo, anche con gli occhi chiusi. Il caccia era precipitato come una meteora incandescente e nessun paracadute si era aperto.

Una meteora incandescente, pensò. E questo è proprio il periodo delle stelle cadenti.

Dopo essersi asciugato la fronte con il fazzoletto che teneva legato al collo, si alzò e avanzando con cautela tra gli altri piloti che dormivano, uscì dalla tenda. Dentro non si respirava per la calura, mista all’odore di sudore.

Una volta fuori, prese un respiro profondo.

Davanti a lui, le sagome degli aerei di notte parevano dormienti ombre scure, che di giorno si trasformavano in angeli della guerra. Gli Spitfire erano la nuova tecnologia britannica messa a disposizione per contrastare l’aggressione nazista che non aveva alcuna intenzione di arrestarsi.

Ancora due o tre ore di calma e tutto sarebbe ricominciato. Tenere lontani i bombardieri della Luftwaffe dalle coste inglesi diventava sempre più difficile: ogni volta che saliva sul suo aereo, George sapeva che avrebbe potuto essere l’ultima. Dentro di sé pregava sempre di non finire arso vivo, com’era successo ad altri piloti anche più in gamba di lui. Come Martin!

Strizzò gli occhi per scacciare la sua immagine straziante e quando li riaprì alzò lo sguardo al cielo. Lo fissò a lungo, per dar modo alle pupille di abituarsi all’oscurità.

Si concentrò sull’unico spazio libero tra le chiazze nere delle nuvole, lì dove s’intravedeva una miriade di punti luminosi.

Aspettò. Una cosa stupida, non aveva però altro cui dedicarsi in quel momento, per evitare di pensare.

La sua paziente attesa fu premiata: ecco una stella saettare tra le altre, lasciando una lunga scia dietro di sé, luminosa ma breve. Proprio come la vita dell’amico. Solo una settimana prima gli aveva confessato i suoi progetti per un futuro che per lui non sarebbe mai arrivato.

Niente da fare! si disse, stringendo i denti.

Non riusciva a pensare ad altro.

Dopo l’ennesimo sospiro, si obbligò a esprimere l'unico desiderio possibile: la vittoria. Sì, la vittoria, a tutti costi. Quel bastardo di Hitler non doveva prendersi anche l’Inghilterra.

Sentì un lieve rumore dietro di sé, ma non si voltò.

«Pure tu fai fatica a dormire» disse una voce baritonale. «Scommetto che è per via di Martin.»

Annuì.

«La stessa cosa vale per me» continuò la voce. «Quel ragazzo era troppo ansioso per sperare di cavarsela.»

«Voleva fare anche lui la sua parte» commentò, voltandosi verso il commilitone, «come tutti noi. Ti ho mai detto che ero stato io a convincerlo ad arruolarsi nell’aviazione? Lui soffriva di vertigini, pensa un po’. Forse alla fine aveva accettato proprio per questo, per dimostrare di essere in grado di vincere la sua fobia.»

«Non devi sentirti in colpa. Dobbiamo abituarci a perdere amici e compagni. Tra poco potrebbe toccare anche a uno di noi due e...»

«La smetti di fare il gufo?» lo interruppe George, toccando d’istinto il piccolo ciondolo appeso al collo, in un gesto scaramantico. «Tornatene a dormire, Henry.»

«È un ordine?»

«No, semplicemente una richiesta.»

«Volevo parlarti proprio di Martin. Potremmo non riuscire più a farlo.»

«Al diavolo la tua negatività!»

Henry alzò le mani. «D’accordo, scusami, ma dobbiamo parlare lo stesso.»

George sospirò. Cercò un posto appartato, si sedette sull’erba e appoggiò le braccia sulle ginocchia.

L’altro lo seguì, accomodandosi accanto a lui.

«La tua Diane come l’ha presa?» domandò Henry.

«Come una ragazza che ha appena perso l’unico fratello che aveva.»

«Domanda idiota, scusami.»

Vedendo la sua espressione imbarazzata, George cercò di cambiare registro.

«Non farci caso, sono io che ho i nervi a fior di pelle, e non solo per via di Martin. È la prima volta che i tedeschi bombardano le nostre stazioni radar. Forse hanno capito di averle sottovalutate e stanno cercando di rimediare.»

«Era solo questione di tempo. Non so quanto potremmo resistere se...» si bloccò all’occhiata torva che George gli rivolse. «Va bene, va bene!» finì alzando di nuovo le mani.

«Poco fa hai detto che volevi parlarmi di Martin: ebbene, ti ascolto.»

L’altro abbassò gli occhi. Dopo qualche istante di silenzio mise una mano in tasca e tirò fuori un pacchettino informe di carta e una busta da lettera, piegata in due.

«Questi sono per te.»

«Non capisco» commentò George confuso, afferrandoli con lentezza.

Appena aprì l’involucro, si ritrovò a guardare la piastrina annerita di Martin, con un nodo alla gola.

«Come mai ce l’hai tu? Spetterebbe ai familiari.»

«Martin aveva già predisposto tutto in caso le cose gli fossero andate male: voleva che la consegnassi a te. Il comandante ne era al corrente, non so altro. Forse nella lettera ti spiega il motivo.»

«Non posso leggerla con questo buio e poi non me la sento di farlo adesso, ci penserò domani... volevo dire oggi, visto che la mezzanotte è passata da un po’.»

«Avrei voluto darti tutto tra qualche ora, infatti, ma ti ho visto qui.»

«Hai fatto bene, non ci sono problemi. Spero solo che Diane non se la prenda a male.»

«Mi dispiace, ma lui ha voluto così.»

«Grazie, Henry.» Impacchettò di nuovo la targhetta con la carta e la mise nella tasca sinistra dei pantaloni, mentre nella destra infilò la lettera.

Si sdraiò sull’erba con la speranza di addormentarsi, Henry lo imitò. Rimasero in silenzio a lungo, a guardare il cielo aprirsi come un forziere stracolmo di brillanti.

Forse quel giorno il tempo non sarebbe stato tanto brutto e i tedeschi ne avrebbero approfittato per sferrare un attacco dietro l’altro. Aveva bisogno di dormire se voleva affrontarli e sperare di salvare la pelle.

Non ci riuscì, nonostante la stanchezza.

I suoi occhi si chiusero soltanto verso la metà della stessa mattinata, dopo che i radar di Rye, di Pevensey e di Dover erano stati attaccati a sorpresa.

Nonostante non ci fosse stato il tempo di attuare una buona difesa, i danni non erano stati rilevanti e in poche ore le tre stazioni radar sarebbero tornate efficienti. Per fortuna almeno quella di Dunkirk, nel Kent, ne era uscita quasi illesa.

George era crollato dopo aver toccato la sedia a sdraio, davanti al Dispersal Point. Non lo disturbavano né le chiacchiere scherzose dei compagni seduti lì vicino, né i rumori provenienti dall’hangar.

Si risvegliò soltanto quando sentì che qualcuno gli scuoteva la spalla con energia. Seccato aprì gli occhi e si voltò.

«Tenente, sistematevi» gli ordinò il comandante, guardandolo dall’alto della sua statura. «Abbiamo bisogno anche di voi.»

«Signorsì» rispose levandosi in piedi.

Accanto al comandante c’era Henry, che gli allungò una tazza di caffè. George gli rivolse un sorriso di gratitudine e bevve subito un paio di sorsi, rischiando di ustionarsi il palato.

«Non vorrei mettervi fretta, tenente Bradley, ma cercate di sbrigarvi.»

George buttò giù il resto del caffè trattenendo una smorfia di sofferenza: non lo sopportava bollente, men che meno d’estate.

«Sarò pronto in pochi minuti» disse passando la tazza nella mano sinistra e portando la destra sulla fronte, nel saluto militare.

Si allontanò ed entrò nella baracca, seguito da Henry.

«Quanto ho dormito?»

«Solo un paio d’ore.»

«Novità?»

«Un attacco alle installazioni portuali di Spithead e uno alla stazione radar di Ventnor. Questa volta gli Stuka sembra che abbiano fatto bene il loro lavoro, ma una lezione gliel’hanno data anche i nostri.»

Una voce tonante, dall’esterno, li interruppe.

«Fuori, sbrigatevi. Tutti agli aerei!»

George e Henry si lanciarono un’occhiata d’intesa.

«Vai, che ti seguo. In bocca al lupo.»

Nel giro di pochi secondi George finì di aggiustarsi gli stivali e si precipitò verso il suo Spitfire, dove l’attendevano un paio di avieri.

Posò il piede nella staffa, mise l’altro sulla base dell’ala e balzò nell’abitacolo. Dopo aver indossato il casco, un aiutante gli sistemò le stringhe e l’altro gli diede una mano a mettere la maschera a ossigeno. Appena alzò il pollice i due uomini si allontanarono di corsa per t ogliere i ceppi che bloccavano il carrello.

George accese il motore e si portò sulla pista, in coda agli aerei dei compagni che stavano già decollando.

In brevissimo tempo i velivoli presero quota. Con un veloce scatto in avanti li raggiunse, unendosi poi allo squadrone, per completare la formazione a V rovesciata.

Trascorsa una decina di minuti di volo, udì una voce gracchiare nelle cuffie. «Qui caposquadriglia: attenzione, musi gialli [9] a ore dieci!»

George spostò appena lo sguardo alla sua sinistra. In lontananza, con le nuvole a fare da sfondo, vedeva una specie di nugolo di piccole mosche, che pian piano assumevano le fattezze di uno sciame di bombardieri, scortati dai caccia Bf 109, a un’altitudine maggiore del suo Spitfire. Scendendo con lo sguardo, poco più in là, notò vortici di fumo e polvere chiara sollevarsi dalla zona che stavano per raggiungere, una vasta area senza pista, dominata da tappeti erbosi.

Cazzo! Stanno devastando Manston!

Diede un’occhiata all’aereo accanto, alla sua destra. Notò che anche Henry stava osservando l’aeroporto. Appena l’amico si voltò a guardarlo e alzò il pollice, lui gli rispose con lo stesso gesto, come a dire: “Attacchiamo!”

Dovevano però attendere l’ordine.

Quando lo Spitfire in testa accelerò, anche George aumentò la velocità del suo per restare in formazione; gli sembrò che il numero degli aerei della squadriglia fosse diminuito.

«Obiettivo sui bombardieri più vicini, quelli in coda» ordinò il leader. «Rosso due e tre, con me, li prendiamo da dietro; pattuglia gialla, sul fianco sinistro, la blu invece...»

«La blu non è più con noi» lo interruppe uno dei piloti.

«Dove diavolo è andata?» gracchiò l’altro, la voce dura.

L’impressione che George aveva avuto poco prima si era rivelata esatta, anche se non aveva la più pallida idea di dove fosse finita quella pattuglia.

«Ha deviato la rotta. Credo si sia diretta a Dover» rispose il pilota di prima.

«Che cazzo vuol fare?»

«Probabile abbia avvistato un altro stormo nemico che...»

«Dannazione!» imprecò il caposquadriglia. «Ci hanno avvistato!» tagliò corto, poco prima di compiere una virata a sinistra e gettarsi verso un Bf 109.

«Addio sorpresa!» mormorò George, scorgendo i caccia tedeschi che si preparavano ad affrontarli.

Non c’era più tempo per pensare.

Ruppero la formazione. Ognuno cercò il proprio bersaglio da inseguire e colpire, mentre i bombardieri si stavano allontanando in tutta fretta.

George virò puntando sull’ultimo dello stormo.

Con la coda dell’occhio vide Henry buttarsi in direzione del caccia di scorta più vicino al bombardiere, per liberargli la strada; ma l’amico non si accorse di un altro Bf 109 che, con una breve e improvvisa cabrata, si era portato sopra di lui.

«Henry, sulla tua testa!» gli urlò.

Rinunciando alla preda, cabrò a sua volta per raggiungere l’aereo che stava per attaccare Henry. Gli scaricò addosso una rabbiosa raffica, che però andò a colpire solo un’ala.

Non lo aveva abbattuto, pensò deluso, ma quel muso giallo avrebbe faticato un bel po’ per tornare alla base; forse si sarebbe schiantato prima ancora di raggiungerla.

Grazie al suo intervento, lo Spitfire di Henry era stato appena sfiorato dai proiettili. Anche il caccia nemico che lui aveva preso di mira poco prima si era però salvato, sganciandosi in picchiata.

George avrebbe voluto inseguire lo sciame, ancora deciso a buttare giù anche un solo aereo, ma la voce dentro le cuffie lo richiamò all’ordine.

«Caposquadriglia a tutti: inutile proseguire, ricomponete la formazione e virate di bordo. Si torna alla base.»

Nessun bombardiere era stato abbattuto, soltanto qualche caccia di scorta danneggiato. Per fortuna anche tutti gli Spitfire erano illesi.

* * *

Valle del Salto, 17 agosto 1940

Evelina stendeva i panni canticchiando “Tulipan”.

Fare il bucato era una gran fatica, però non le pesava metterlo ad asciugare: l’odore del pulito, il cielo sereno e il calore del sole la mettevano di buonumore. Nel fissare a una corda tesa tra due alberi l’ultimo lembo di lenzuolo, vide Saverio arrivare sul vialetto sterrato davanti alla casa.

Era un po’ di tempo che non veniva a trovarla. La cosa però non la stupiva: con tutto quello che stava succedendo nei paesi della valle! Si lisciò in fretta il grembiule, si ravvivò i capelli con le dita e si precipitò ad aprire il cancelletto.

«Saverio!»

Lui alzò una mano per salutarla.

Come le arrivò vicino, lei gli buttò le braccia al collo e lo baciò sulla guancia.

«Sono contenta che sei venuto a trovarmi.»

«Solo qualche minuto: mi tocca fare una commissione» le disse con tono di scusa.

«Per questo hai un’espressione così seria?»

«Sì, mi sono stancato di correre a destra e a manca. Da quando l’acqua del fiume ha iniziato a salire e allagare la terra, giù in valle, mio padre e mia sorella non mi lasciano in pace: “bisogna salvare questo, c’è da portar via quello...”» s’interruppe, sbuffando.

«Ho capito. Se sei passato di qui, significa che stai andando a Teglieto.»

«Mia sorella vuole che le prenda una roba che ha lasciato a casa, prima che sia troppo tardi.»

«Ma non ci vediamo da un mese! Posso venire con te, allora? Qui ho già finito.»

«Tuo padre si arrabbierà, soprattutto se ti porto lì.»

«Papà non è a casa e comunque in questo periodo ha troppo da fare per accorgersi della mia assenza. E mia sorella, quando ricama il corredo, non vuole essere interrotta se non per cose urgenti. Marianna è ancora in alta montagna con la zia. Dai, portami con te, così stiamo insieme un po’ di più.»

Saverio si grattò la testa e dopo averla fissata per qualche istante lasciò ricadere il braccio lungo il corpo.

«Va bene. Ma devi camminare in fretta... e torniamo subito. Non vorrei beccarmi una strigliata da tuo padre e men che meno da tuo fratello. A proposito, è con le pecore, spero.»

«Sì, non ti preoccupare.»

Evelina rimpiangeva i tempi in cui, poco più che bambini, passeggiavano liberi per i boschi e lungo le rive del fiume, senza farsi troppi problemi. In pochi anni era cambiato tutto.

Entrò di corsa in cucina, si tolse il grembiule e lo appese al gancio. Si affacciò in sala da pranzo, dove Adele stava rica mando, seduta sulla sedia a dondolo appartenuta alla mamma.

«Ho steso i panni, vado a fare una passeggiata: torno per aiutarti a preparare la cena.»

La sorella assentì con il capo senza spostare lo sguardo dal lavoro. Prima che potesse cambiare idea o far domande, Evelina lasciò in fretta la stanza, attraversò la cucina e uscì sul pianerottolo. Dopo aver aperto la piccola porta del ripostiglio, si tolse le ciabatte per indossare il paio di sandali lasciato lì il giorno precedente, poi, scendendo le scale, raggiunse Saverio.

S’incamminarono lesti lungo il sentiero digradante, rallentando il passo solo quando furono vicino a quella che aveva l’aspetto di una zona alluvionata. Dopo aver ricoperto gran parte del terreno coltivato e della vegetazione sopravvissuta all’abbattimento degli alberi, l’acqua stava per lambire le prime case più a valle.

Evelina sentì un nodo alla gola.

Lo scenario era peggiore di quello già visto altre volte, quando il fiume nel gonfiarsi rompeva gli argini e allagava i campi più vicini. Nel giro di poco tempo però le acque si ritiravano e tutto tornava come prima, anche se poi si dovevano riparare i danni. Adesso invece era diverso, le acque si sarebbero alzate sempre di più: la diga era pronta.

La Società Terni era riuscita a far sloggiare gli abitanti della zona, che invano avevano chiesto di non essere strappati dalla loro terra, dalle loro case, dalla loro vita. Niente da fare. C’era bisogno di energia elettrica e tutti quelli che abitavano nella valle dovevano essere disposti a pagarne il prezzo. Peccato però che questo prezzo non lo stessero pagando tutti allo stesso modo.

Giunti all’imbocco del paese, i due ragazzi percorsero la via principale che si snodava tra le case in pietra. Appena i piedi toccarono una grossa pozzanghera di acqua e fango, si fermarono di colpo.

«Non credevo che l’acqua fosse già arrivata fino a questo punto» commentò Saverio.

«E adesso che facciamo?» chiese Evelina.

«Tu aspetti qui, io vado avanti. La casa di mia sorella è lì» disse indicando quella dall’altro lato della strada, poco più in basso, con le finestre orlate di bianco e il tetto rosso scuro.

La porta d’entrata affiorava per tre quarti. Più in là, invece, il ponticello a due arcate era quasi sommerso, mentre la piccola chiesa sembrava lottare per non farsi sopraffare.

«Sei sicuro di volerlo fare? Ti bagnerai i pantaloni.»

«Fa niente! Con questo caldo si asciugheranno presto. Torno subito.»

La lasciò lì, a guardarlo avvicinarsi alla casa, con le gambe che affondavano sempre di più nell’acqua, fino al ginocchio.

Lo vide mettere le mani in tasca, tirar fuori qualcosa, forse una chiave, e aprire la porta. Il vortice che si creò la spalancò di colpo mandandola a sbattere contro la parete. Perso l’equilibrio, Saverio si aggrappò allo stipite, ma le mani abbandonarono subito la presa e scivolò, sparendo verso l’interno.

Evelina cercò di rimanere dov’era e per un quarto d’ora ci riuscì, poi l’impazienza unita alla sua indole curiosa la indussero a far di testa sua e a mettere da parte il buon senso.

Attraversò la strada e dopo essersi guardata intorno per accertarsi che non ci fosse qualcuno a vederla, si tirò su la gonna e l’annodò ai fianchi. Camminò con cautela, la torbida superficie dell’acqua adesso appariva calma e non trovò difficoltà ad arrivare anche lei davanti all’entrata. Sbirciò dentro, la luce del sole filtrava da una finestra semiaperta rischiarando un dop pio locale, uno dei quali le sembrò una cucina: si vedeva il camino, con sopra un vaso di terracotta rotto, e un forno in mattoni. La mobilia era stata portata via. Sulle pareti si notavano i segni degli oggetti un tempo appesi e che ora non c’erano più.

Mise un piede avanti per tastare il pavimento e si accorse delle presenza di un gradino. Lo scese attenta, appoggiandosi alla porta, e avanzò adagio: l’acqua fresca le dava sollievo dalla calura, ma l’odore di muffa non era altrettanto gradevole.

Saverio non era lì.

La sua attenzione fu richiamata da un miagolio. Si guardò intorno e vide un gattino sopra al davanzale della finestra, aperta per metà.

Come diavolo c’è finito lì? si domandò avvicinandosi al cucciolo con movimenti lenti, per non spaventarlo. Lo accarezzò per qualche istante e sentì che tremava, nonostante facesse caldo.

«È terrorizzato» mormorò. Lo prese in braccio e lo poggiò sul seno. Il gattino alzò il musetto e piantò gli occhi verde mare nei suoi verde muschio. «Chissà da quanto tempo sei qui!» si chiese sorridendo, con espressione intenerita.

Udì uno sciabordio e la voce di Saverio: «Credo sia salito lì sopra prima che il pavimento fosse sommerso dall’acqua.»

Evelina sussultò.

«Oh, ce l’hai fatta, finalmente!» Nel vederlo con i pantaloni zuppi scesi a metà dei fianchi e coi morbidi ricci appiccicati sulla testa, davanti agli occhi, sorrise divertita. «Già che c’eri, hai pensato di farti anche il bagno?»

«Non sei spiritosa. Ma mi piace vederti sorridere: tu e Marianna avete davvero un bel sorriso.»

«Grazie! Anche il tuo non è male. Hai trovato quello che cercavi?»

Lui alzò la mano chiusa a pugno. «Sì, ce l’ho qui. Mia sorella aveva nascosto gli orecchini e il bracciale di mia nonna. Credevo di trovarli subito, ma quella svampita a quanto pare non sa nemmeno da che parte stanno il nord e il sud.»

«E se n’è andata senza prenderli? Strano!»

«Non ha potuto. Ogni volta che veniva a portar via mobili e oggetti c’era sempre il marito con lei. Mi ha confessato che non vuole fargli sapere dell’oro: ha già messo le mani su quelle poche lire che mio padre le aveva dato come dote» e si mise in tasca l’involucro di lana, nel quale erano avvolti i gioielli. «Ora possiamo andare.»

Poco prima di imboccare la porta, Saverio si fermò per togliersi la camicia. Mentre lui strizzava l’indumento, Evelina osservò per alcuni istanti il suo torace asciutto, dalla pelle chiara, che si scuriva su collo e viso e da sopra i gomiti alle mani: il marchio di chi è costretto a lavorare al sole. Saverio era molto diverso da Nerioo dal padre, che erano più corpulenti e di colorito più scuro.

«Vorrei tanto fare la stessa cosa anche con i pantaloni» fece lui sistemando la cintura sulla vita.

«Ma non puoi farlo. Non davanti a me.»

«Un vero peccato!» commentò strizzandole l’occhio.

Lei gli diede una leggera pacca sulla spalla, ridendo. Saverio ogni tanto si divertiva a stuzzicarla, ma erano troppo amici per credere che potesse fare sul serio: lui era il fratello buono che avrebbe sempre desiderato avere, al posto di quel pezzo di sterco che si ritrovava.

Il ragazzo s’infilò di nuovo la camicia e poi l’aiutò a rimettere a posto la gonna. «Sbrighiamoci ad andarcene, prima che qualcuno ci veda.»

«Se è per me che ti preoccupi, non importa: qui non mi conosce nessuno e io non conosco nessuno.»

«Filiamo subito lo stesso. Che farai con quel gattino?» le domandò indicando il cucciolo che teneva rannicchiato sul seno e che aveva smesso di tremare.

«Non lo so... ci penserò strada facendo.»

2

Inghilterra: Kent, 15 agosto 1940

Anche se l’aeroporto di Manston era tornato operativo, i segni del bombardamento di tre giorni prima erano ben visibili nelle grosse buche rabberciate alla meglio, in alcune baracche non ancor a del tutto riparate e nello scheletro annerito di un aereo Blenheim. Gli ufficiali avevano avuto il loro bel da fare nel convincere il personale di terra a riprendere il servizio, mentre i piloti, nonostante le gravi perdite e il pericolo sempre incombente, si sforzavano di mostrarsi su di morale.

Nell’aria ristagnava ancora l’odore di combustibile bruciato, così forte che quasi copriva il profumo dell’erba, sulla quale George s’era sdraiato ad ascoltare i discorsi dei compagni.

Sentiva la mancanza di Martin, che era sempre stato il più chiassoso del gruppo. Nella sua lettera-testamento, aveva potuto leggere il motivo per cui gli aveva lasciato la piastrina: “Solo chi ha vissuto la mia esperienza può capire fino in fondo il valore di questo pezzo di metallo. Voglio che lo abbia tu, il mio compagno d’avventura, il mio migliore amico.”

Nelle ultime righe, inoltre, Martin gli chiedeva di prendersi cura di Diane; ma poteva, lui, a soli ventidue anni, dimostrarsi all’altezza di quel compito?

La risata di uno dei compagni lo scosse dai pensieri.

Tutti loro non vedevano l’ora di rientrare a Hornchurch per rifocillarsi, soprattutto Alec Farrel, perennemente afflitto da una fame atavica.

«Mi sa che stasera la tua cena se la mangerà qualcun altro» disse Henry, seduto sull’erba accanto a George.

«Nemmeno per idea!» ribatté Alec con voce secca, prima di gettare a terra la rivista che stava sfogliando e alzarsi. «Torniamocene alla base, ragazzi!»

«Sta’ calmo! Nessuno di noi vuole rimanere ancora qui, ma dobbiamo aspettare che ci diano il permesso.»

«Eh già! Tanto non sono mica loro a dover digiunare! Va bene rischiare la pelle, però almeno voglio morire con la pancia piena» borbottò, toccandosi l’addome.

«Morire tu? Hai più vite di un gatto!» commentò Henry. «Comunque, se ogni tanto digiuni, non succede niente. Devi essere in forma, se vuoi portarti a letto una come quella» e indicò con lo sguardo la copertina del giornale che Alec aveva appena finito di sfogliare, dove il seno prorompente di una pin up era strizzato dentro un corsetto a stelle e strisce.

«Una così me la mangio a colazione.»

«Booom!» fece Henry. «Sì, certo, come no! Guarda piuttosto Bradley...»

Nel sentirsi chiamare in causa, George si mise a sedere.

«Cosa c’entro io, adesso?» domandò, sistemandosi il giubbotto salvagente che gli si era spostato.

«Perché Diane è una vera bomba, tanto per restare in tema» rispose Henry.

«Non lo metto in dubbio» convenne Alec, «ma lui si è già impiccato con le proprie mani, mentre io voglio ancora godermi la vita, per breve che possa essere. E poi “donne e buoi dei paesi tuoi”: il mio Paese si trova dall’altra parte del globo, quindi...»

George mostrò la mano sinistra: «Guardate: non ho nessun tipo di anello al dito.»

«Per ora, solo per ora» osservò Henry.

Quella battuta gli diede da pensare.

Conosceva Diane da una vita: forse lei e la sua famiglia si aspettavano a breve una richiesta di matrimonio. Magari lo davano per scontato, visto quello che gli aveva scritto Martin. Pensare di mettere su famiglia con tutto quello che stava succedendo era assurdo: Diane avrebbe potuto diventare vedova prima delle nozze.

«Ehi, stavamo scherzando» lo scrollò l’amico.

«Lo so, Henry, forse non lo hai notato, ma negli ultimi tempi ho avuto troppo da fare a cercare di ammazzare crucchi tra le nuvole, per potermi occupare di chiese, fiori e abiti da cerimonia» ironizzò.

Lo scampanellio del telefono, proveniente dalla baracca poco distante, lo fece trasalire.

Lo scambio di sguardi, l’immobilità e il silenzio che seguirono durarono solo una manciata di secondi, poi la voce tonante del comandante ruppe l’attesa:

«Ragazzi, agli aerei, presto!» ordinò, affrettandosi nella loro direzione.

«Che ti dicevo, Alec? Niente cena» sentenziò Henry, lanciando uno sguardo al commilitone, un attimo prima di iniziare a correre.

«Sei il solito uccellaccio del malaugurio!» gli gridò dietro l’altro, seguendolo.

Seduto nella cabina di pilotaggio, George controllò in fretta il livello del carburante, l’aria compressa, la pressione dell’olio, la pompa a ossigeno e ogni altro parametro indispensabile a salvargli la vita. Indossò casco, maschera e occhiali a tempo di record, quindi, dopo aver messo in moto, rullò sul suolo erbo so. Tutt’intorno il rumore dei motori iniziava a farsi assordante.

Si piazzò in diagonale, dietro ai tre aerei della pattuglia rossa, in formazione a V rovesciata, con al vertice il caposquadriglia, già in fase di decollo. Lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore agganciato al parabrezza antiproiettile, poi si voltò sporgendosi per guardare meglio: i suoi gregari, numero due e tre, erano pronti a seguirlo e anche le altre sezioni sembravano sul punto di muoversi.

Chiuse la cappottina e lanciò lo Spitfire, che si sollevò da terra librandosi in aria. Il sole appena dietro di lui spruzzava di giallo arancio il cielo e le rade nuvole.

Dalla cuffia sentì una voce:

«Controllo a caposquadriglia Thunder: nemici a due, punto, zero, tra Dover e Dungeness.»

«Qui Thunder a Controllo: ricevuto!».

«Caposquadriglia a tutti: virare a destra di quarantacinque gradi. Conservate l’allineamento.»

George adeguò la velocità alla virata, accertandosi che i suoi due gregari aumentassero o diminuissero la propria per non perdere l'assetto. Proseguendo lungo la costa, attraverso il perspex del tettuccio stondato, vide delinearsi un ammasso di velivoli che sembrava non aver fine.

Oh, cazzo! Ma quanti sono? si domandò, avvertendo un brivido incontrollato, seguito da una sensazione simile a quella di un nugolo di vespe che gli pungevano la testa.

«Tally-ho! A ore undici» avvisò il capo.

«Giallo uno: li vedo» rispose George come un automa, ripensando al fatto che proprio quel giorno i tedeschi avevano attaccato dalla Norvegia, convinti che tutti gli aerei della R.A.F. fossero impegnati al sud; ma Hugh Dowding era stato previdente: quei maledetti avevano ricevuto una bella lezione.

Stavolta però siamo fregati!

Nei pochi secondi che seguirono, corpo e mente gli si intorpidirono: sentiva le parole del comandante Preston come se parlasse una lingua sconosciuta.

Martin, amico mio... mi sa che tra poco ci ritroviamo!

Non era riuscito ad andare al suo funerale.

Non aveva nemmeno potuto rivedere Diane.

Strinse la mandibola per la tensione, cercando di controllare l’impeto delle emozioni che rischiavano di bloccarlo.

Era responsabile della vita di altri uomini, doveva farlo per loro, oltre che per se stesso.

E per Diane.

E per Martin, che gli aveva chiesto di occuparsi di lei.

Appena vide la pattuglia rossa davanti a lui salire di quota, tornò in sé. Non aveva ben compreso l’ordine di Preston, ma d’istinto seguì la sua scia, trascinandosi dietro i due gregari.

Raggiunse i seimila metri mentre le sezioni blu e verde modificarono non solo l’altitudine ma anche la posizione: adesso le aveva di lato.

Ormai prossimo all’obiettivo, la paura si trasformò in qualcosa che gli ossigenava il cervello, instillandogli una feroce determinazione a vender cara la pelle: se proprio doveva morire, che più nemici possibili lo seguissero!

A un tratto avvertì come se qualcosa fosse cambiato nel cielo. Spostò lo sguardo verso destra: in lontananza un folto gruppo di aerei si dirigeva verso gli stormi tedeschi, che avevano preso rotte diverse.

Arrivano i rinforzi! esultò.

«Controllo a capo Thunder: aerei amici in arrivo.»

Le parole del comandante Bouchier ebbero l’effetto di una benedizione.

«Capo Thunder in ascolto: li sto vedendo proprio ora.»

I velivoli con la svastica erano ancora in numero superiore, ma almeno adesso, oltre alla speranza di non lasciarci le penne, c’era anche la possibilità di fermarne parecchi.

George attese col fiato sospeso un ordine, pur consapevole che per affrontare quella situazione il comandante dello squadrone avrebbe potuto solo seguire l’istinto e improvvisare.

«Qui capo Thunder a tutte le unità: attacchiamo appena sono a tiro, ma non sprecate le munizioni. Rosso due e tre, puntiamo sui bombardieri in prima linea, dall’alto: statemi alle costole. Pattuglia blu e verde, voi attaccate dal fianco, e attenti ai caccia di scorta. Giallo uno, tu e la tua coppia copriteci le spalle.»

Con un respiro profondo, George si preparò alla battaglia. Vide le sezioni blu e verde superarlo, per dirigersi contro lo stormo più vicino.

In pochi secondi si scatenò l’inferno.

George alzò il suo aereo in una cabrata, per schivare i colpi di un Bf 109 che voleva sorprenderlo al fianco. Il vento fischiava contro il tettuccio, mentre le pallottole nemiche andavano a vuoto. Ancora in verticale, compì un looping, ma prima di tornare al punto di partenza, spinse il pulsante di tiro sulla cloche, scaricando una raffica di mitragliatrice sulla fusoliera del primo caccia nemico che gli capitò al centro del mirino.

Preso!

Guardò l’aereo con una grossa croce nera dipinta sulle ali oscillare, emettendo una scia di fumo scuro, per poi puntare dritto a peso morto verso la costa inglese.

Non si soffermò a osservarne la fine, perché un altro Bf 109, da un punto più basso, stava per avventarsi su di lui.

Inclinò subito le ali di lato, esponendo così meno superficie al nemico, mentre diminuiva la velocità per farsi superare. La manovra, come temeva, riuscì a disimpegnarlo solo in parte, perché udì il rumore dei proiettili sul metallo. Non riuscì a stabilire dove lo avessero colpito, ma capì che se il suo Spitfire si lasciava ancora governare, nessuna parte vitale era stata compromessa. Appena formulato quel pensiero, vide un nuovo caccia puntare su quello del suo compagno Alec, già impegnato a difendersi da un altro aereo nemico.

Fulmineo, gli svuotò addosso una raffica di Browning, che però non andò a segno. Gli sparò di nuovo, questa volta centrando la carlinga.

E due! pensò soddisfatto.

I traccianti dei proiettili gli avevano appena segnalato che stava per terminare le munizioni.

«George, bandito in coda, poco più in alto!»gli urlò la voce di Henry nelle cuffie. Troppo tardi.

Dannazione!

Una pioggia di proiettili cadde sul suo Spitifire, dalla semiala destra alla cabina di pilotaggio. Udì il perspex sfondarsi e avvertì un dolore lancinante alla parte alta del torace. Alcuni strumenti di controllo erano fuori uso.

L’aereo perse l’assetto e iniziò a rollare.

George sentiva l’odore opprimente dei fumi della polvere da sparo e l’aria che entrava con violenza, sibilando, dalla crepa del tettuccio. Agì veloce sulla pedaliera, per tentare di riportare le ali in linea, spostò la cloche in avanti, abbassando così il muso, poi aumentò di poco la velocità. Attese qualche istante, in picchiata, nella speranza di uscire dallo stallo e riprendere il controllo, ma l’aereo entrò in vite.

È tutto inutile! si disse, con la vista che si offuscava sempre di più, lo stomaco contratto, il respiro breve e superficiale. Non era in grado nemmeno di comunicare via radio.

Gli parve quasi di perdere i sensi.

Doveva uscire di lì. Subito!

Lottando contro il corpo e la vista che volevano abbandonarlo, si tolse la maschera a ossigeno, sganciò la cintura di sicurezza e allungò le mani verso i lati del tettuccio, alla ricerca delle maniglie dell’apertura. Appena le percepì sotto le dita, le afferrò e fece scorrere la cappottina. In pochi attimi, con un ultimo sforzo di volontà, riuscì a gettarsi fuori dal velivolo.

L’aria fredda gli sferzò il viso come un violento schiaffo, che lo fece sussultare. Spalancò le palpebre e attraverso la nebbia dei suoi occhi intravide la costa venirgli incontro veloce. Era vicina, troppo vicina!

La corda, dove cazzo è la corda?

La cercò con frenesia, alla cieca.

Trovata!

La tirò.

Il paracadute si aprì e Bradley si sentì strappare verso l’alto, poi fluttuare nell’aria.

L’ultima sensazione di cui ebbe coscienza.

Come George aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu una tozza bottiglietta capovolta con un tubicino che scendeva verso il suo braccio. Quell’immagine ondeggiante, sfocata, insieme all’odore di disinfettante gli provocava nausea.

Che diavolo è successo?

La mente gli rimandò le scene di una battaglia aerea, la voce di Henry che lo avvisava di un caccia in coda, le raffiche di mitraglia, il dolore, il lancio col paracadute. Poi più niente. Prese un respiro profondo e si voltò dalla parte opposta, ma avvertendo una fitta dolorosa alla parte sinistra del torace, gli sfuggì un gemito.

«George! Come ti senti?» domandò una voce familiare.

«Mamma, che ci fai qui?»

Il viso magro della madre sembrava ancora più sottile, gli occhi arrossati.

«Come che ci faccio? Ti hanno ferito: dove dovrei essere? A prendere il tè con le amiche al circolo del bridge?»

«Non è niente» le rispose con un sorriso.

«La frase preferita di tutti gli eroi: potevi anche risparmiartela. A me i medici hanno detto che hai perso tanto sangue. Ancora qualche altro minuto e non avrebbero potuto far più niente.»

«Sono vivo, è questo che conta.»

La vide tirar fuori un fazzoletto e soffiarsi il naso, ma sul suo viso non c’era segno di lacrime: non era da lei mostrarsi debole.

«Farete morire me di crepacuore, tu e tuo fratello!»

«Il tuo cuore regge meglio del mio. Sei venuta con papà?» le domandò guardandosi intorno.

«Tuo padre è stato qui fino a poco fa, poi la gamba ha ricominciato a fargli male e il dottore gli ha consigliato di tornare a casa.»

«Ha fatto bene.» Guardò verso la finestra. Il sole era ancora alto e illuminava buona parte della stanza. C’era un solo letto, oltre al suo, ma nessuno lo occupava. «Che ore sono?»

«Le tre del pomeriggio. Hai dormito per tutto il tempo, anche se c’è stato un momento in cui ti sei agitato e hai anche parlato.»

«Spero di non aver detto niente di sconveniente.»

«Parlavi di Martin e di Diane. Mi dispiace per quel ragazzo, eravate così legati!»

George si adombrò.

«Ascolta» si affrettò a dire la madre. «Henry è fuori in corridoio. È corso qui appena ha potuto. Vuoi che lo faccia entrare? Così avviso anche il medico che ti sei svegliato.»

«E me lo chiedi pure?» Il gufo era ancora tutto intero, allora, pensò sollevato. «E Diane?»

«L’ho vista ieri, al funerale del fratello; non credo ancora sappia che sei qui. Io e tuo padre eravamo troppo preoccupati per avere il tempo di...»

«Sì, sì, va bene, ho capito» la interruppe. «Fai venire Henry, per favore.»

La donna uscì e rientrò con il suo amico, che gli si avvicinò con un’espressione sorridente.

«Ehi, ti stai prendendo una bella pausa, eh?»

«Sì, ma non mi sostituirete tanto facilmente» gli rispose. Poi si rivolse alla madre. «Ti vedo stanca. Vai a casa pure tu a riposarti, mi terrà compagnia Henry.»

«Va bene, capisco che dovete parlare di cose vostre» convenne, accennando una carezza sulla fronte.

Lui le scansò la mano con gentilezza. La madre non parve prendersela più di tanto: in fondo sapeva quanto le effusioni, soprattutto in pubblico, lo mettessero in imbarazzo.

«Ci vediamo domani, figliolo» si limitò a dirgli. Prima di dileguarsi, alzò lo sguardo su Henry. «Spero di rivederti in un’occasione più felice di questa.»

Il giovane annuì, salutandola con deferenza.

«Dimmi, come vanno le cose a Hornchurch?» gli domandò George appena rimasti soli.

Il compagno scrollò le spalle. «Come al solito.»

Non si lasciò ingannare. «A chi altri è andata male?»

Henry sospirò. «Abbiamo fatto tutto il possibile, ma erano davvero tanti.»

«C’ero anch’io, quindi non girarci intorno.»

«Alec si è fatto beccare.»

«Alec? Ho cercato di parargli il culo, credevo di esserci riuscito.»

«Me ne sono accorto, ma dopo che ti hanno colpito, lui ha iniziato ad andar fuori di testa.»

«È grave?»

«Diciamo che tu sei stato più fortunato.»

«Maledizione!» imprecò toccandosi la fronte.

«Uno di quei gruppi di aerei che ieri abbiamo visto dividersi si è spinto fino a Coventry, senza però fare troppi danni. L’ho saputo solo dopo che siamo ritornati alla base.»

George si accigliò. Non si erano mai avvicinati tanto a Londra. Se Göring si era spinto fin lì’ ormai bisognava aspettarsi di tutto.

«Adesso però rimettiti in forma, così potrai tornare a far bal doria con noi» proseguì Henry. «Ti porto i saluti del comandante Bouchier. Dopo la tua revisione ti rivuole subito alla base.»

«Dove sono atterrato?»

«Proprio sulla costa, per fortuna. Ti hanno soccorso subito. È stato Alec a...»

Una voce femminile, proveniente da fuori la porta, interruppe la conversazione.

«Vorrei vedere il tenente Bradley, adesso, se non vi dispiace.»

«Aspettate, ora non potete...»

George non riuscì a sentire il resto della frase; una ragazza entrò trafelata nella stanza.

«Oh, tesoro mio, stai bene?» domandò precipitandosi da lui.