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Famagosta è rimasta l'ultimo baluardo cristiano sull'isola di Cipro, tutt'intorno alla città si estende il campo saraceno e ogni giorno viene fatto grande uso di polvere da sparo e palle di cannone da parte di entrambi gli eserciti. Molti sono i valorosi soldati cristiani nella città, ma più di tutti si è distinto nei combattimenti un giovane, tanto che il suo nome incute terrore e rispetto: si tratta del prode "Capitan Tempesta". In realtà, dentro l'armatura si nasconde un'audace fanciulla, Eleonora duchessa di Eboli, abilissima nell'uso della spada e giunta sotto mentite spoglie sull'isola ormai assediata per tentare di liberare il fidanzato, il visconte Le Hussière, caduto nelle mani dei turchi. Un giorno, sfidata da un altro cristiano, accetta un duello ad armi bianche con Muley-El-Kadel, soprannominato il "Leone di Damasco" per il suo valore, figlio del pascià di Damasco. Entrambi sono molto abili, ma infine la vittoria spetta a Capitan Tempesta, che ferisce non troppo seriamente il suo avversario e viene applaudita da tutti i cristiani. Benchè ferito e umiliato per essere stato sconfitto (e da un cristiano poi!),il Leone di Damasco non serba rancore e anche lui non può che ammirare il coraggio di Capitan Tempesta.
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Veröffentlichungsjahr: 2017
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CAPITAN TEMPESTA
Capitolo I-V
CAPITOLO VI-X
CAPITOLO XI-XV
CAPITOLO XVI-XX
CAPITOLO XXI-XXV
CAPITOLO XXV-XXIX
CONCLUSIONE.
CAPITOLO I
Una partita a «Zara»
— Sette!...
— Cinque!
— Undici!
— Quattro!
— Zara!...
— Corpo di trentamila scimitarre turche! Che fortuna avete voi, signor Perpignano! Sono ottanta zecchini che mi guadagnate in due sere. Ciò non può durare! Preferisco una palla di colubrina in corpo e per di più una palla di quei cani di miscredenti. Almeno non mi scorticherebbero dopo presa Famagosta.
— Se la prenderanno, capitano Laczinki.
— Ne dubitate, signor Perpignano?
— Sì, almeno per ora. Finchè abbiamo gli schiavoni, Famagosta non verrà presa. La Repubblica Veneta sa scegliere i suoi soldati.
— Non sono polacchi.
— Capitano, non offendete i soldati dalmati.
— Non ne ho avuto alcuna intenzione, tuttavia se qui vi fossero dei miei compatrioti...
Un mormorio minaccioso che si levò intorno ai due giuocatori, misto ad un tintinnio di spade nervosamente agitate, indusse il capitano Laczinki ad interrompere la frase.
— Uh! — disse, cambiando tono e abbozzando un sorriso. — Sapete bene, valorosi schiavoni, che io amo scherzare. Sono quattro mesi che combattiamo insieme contro quei cani di miscredenti, che hanno giurato di levarci di dosso la pelle e so quanto valete. Dunque, signor Perpignano, giacchè i turchi ci lasciano un po' tranquilli, riprendiamo la partita? Ho ancora una ventina di zecchini che passeggiano nelle mie tasche.
Quasi a smentire il capitano, si udì in quel momento rombare cupamente il cannone.
— Ah! Mascalzoni! Nemmeno alla notte ci lasciano tranquilli — riprese il loquace polacco. — Bah! Avrò tempo sufficiente per perdere o vincere ancora qualche decina di zecchini. È vero, signor Perpignano?
— Quando vorrete, capitano.
— Mescolate i dadi.
— Nove! gridò Perpignano, facendo rotolare i dadi sullo sgabello che serviva ai due avversari da tavolo da giuoco.
— Tre!
— Undici!
— Sette!
— Zara!
Una bestemmia sfuggì dalle labbra dello sfortunato capitano, mentre intorno a lui scoppiavano delle risate, subito represse.
— Per la barba di Maometto! esclamò il polacco, gettando sullo sgabello due zecchini. — Avete fatto qualche patto col diavolo, signor Perpignano.
— Niente affatto. Sono troppo buon cristiano.
— Qualcuno deve avervi insegnato un colpo di mano e scommetterei la mia testa contro la barba d'un turco che quel qualcuno è Capitan Tempesta.
— Giuoco sovente con quel valoroso gentiluomo, ma non mi ha mai insegnato alcun colpo di mano.
— Gentiluomo! Hum! — fece il capitano con una certa acredine.
— Non lo credete tale?
— Hum! Hum! Chi sa chi veramente sia?
— È pur sempre un giovane gentile e d'un coraggio straordinario.
— Un giovane!...
— Che cosa vorreste dire, capitano?
— Se non fosse veramente un giovane?
— Non ha certo vent'anni.
— Non mi capite, ma lasciamo andare Capitan Tempesta ed i turchi e riprendiamo il giuoco. Non voglio battermi domani colle tasche vuote. Come potrei pagare Caronte, senza aver in tasca un misero zecchino? Per varcare lo Stige si deve pagare, mio caro signore.
— Sicchè, siete ben certo di andare all'inferno — disse il signor Perpignano, ridendo.
— Può darsi, — rispose il capitano, prendendo quasi con collera il bossolo e agitando i dadi. — Orsù, due zecchini ancora.
Questa scena avveniva sotto una immensa tenda, poco dissimile da quelle che usano oggidì i saltimbanchi e che serviva ad un tempo da caserma e da cantina, a giudicarlo dai numerosi materassi disposti all'ingiro e dai barili accumulati dietro un rozzo banco su cui stava seduto il proprietario della baracca, centellinando una caraffa piena di vino di Cipro.
Sotto una lampada di Murano, che pendeva dal palo centrale reggente la tenda, stavano i due giuocatori intorno ai quali si erano raggruppati una quindicina di schiavoni, soldati mercenari, che la Repubblica Veneta levava dalle sue colonie dalmate, per mandarli a difendere i suoi possessi del levante, minacciati continuamente dalle formidabili scimitarre dei turchi.
Il capitano Laczinki era un omaccio largo e grosso, con braccia muscolose, la capigliatura ispida come quella d'un porcospino e biondastra, con due baffi enormi, che rassomigliavano a denti di morsa, il naso rosso d'un bevitore impenitente e gli occhi piccoli, mobilissimi. Nei tratti del viso, nelle mosse, nel modo di parlare s'indovinava in lui, anche di primo acchito, il capitano di ventura e lo spadaccino di professione.
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