La città del re lebbroso - Emilio Salgari - E-Book

La città del re lebbroso E-Book

Emilio Salgari

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Beschreibung

La città del re lebbroso è un romanzo di Emilio Salgari. pubblicato nel 1904. Lakon-tay, valente ex generale dell'esercito siamese, è l'importante ministro a cui è affidata la cura degli elefanti bianchi, ospitati nel palazzo reale a Bangkok e venerati come simbolo della protezione divina. Gli animali muoiono misteriosamente; in realtà si tratta di un complotto: sono stati avvelenati dall'avventuriero Kopom che trama insieme al malvagio ministro Mien-Ming allo scopo di far cadere in disgrazia Lakon-tay, il quale aveva rifiutato a quest'ultimo la mano della sua bella figlia Len-Pra. Lakon-tay, caduto in disgrazia e disprezzato da tutta la popolazione per non essere stato in grado di proteggere gli elefanti, tenta di suicidarsi con l'oppio, ma viene salvato dal vicino di casa Roberto, un dottore italiano che si è stabilito a Bangkok; questo episodio segna l'inizio dell'amicizia tra Roberto e Lakon-tay. Per riabilitarsi agli occhi del re, Lakon-tay è costretto a mettersi in viaggio verso Angkor Thom, capitale dell'impero Khmer abbandonata da secoli, alla ricerca dell'uncino utilizzato per condurre l'elefante in cui si era incarnato Buddha (nel libro chiamato Sommona Kodom, secondo la tradizione siamese). La tradizione infatti vuole che il ritrovamento dell'uncino propizierà sicuramente la cattura di elefanti bianchi per il palazzo del re.

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Veröffentlichungsjahr: 2017

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Emilio Salgari

La città del re lebbroso

LA CITTÀ DEL RE LEBBROSO

EMILIO SALGARI
ISBN 978-88-3295-041-0
Wikibook edizioni
edizione digitale
giugno 2017
www.wikibook.it
ISBN: 978-88-3295-041-0
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Indice

LA CITTÀ DEL RE LEBBROSO

Capitolo I-X

Capitolo XI-XX

Capitolo XXI-XXX

Capitolo XXXI-XXXIII

​Conclusione

LA CITTÀ DEL RE LEBBROSO

Capitolo I-X

Capitolo I

La morte del S'hen-mheng

Un rombo metallico, che si ripercosse lungamente, con una vibrazione argentina, nell'ampia sala sorretta da venti colonne di legno dipinte a vivaci colori e cogli zoccoli coperti da lamine d'oro, fece bruscamente sussultare Lakon-tay.

L'invidiato ministro, preposto alla sorveglianza dei S'hen-mheng, i sacri elefanti bianchi del re, dinanzi a cui piccoli e grandi s'inchinavano, udendo quel colpo di gong sentì un fremito corrergli per tutto il corpo, mentre la sua fronte leggermente abbronzata si imperlava di grosse stille di sudore.

Con una mossa lenta, si alzò dal largo cuscino di seta azzurra a frange e ricami d'oro che gli serviva da sedile, mormorando con voce semispenta:

«M'annuncerà questo colpo la vita o la morte? La maledizione eterna di Sommona Kodom o la felicità? L'odio del re e del popolo, o nuovi onori e nuove grandezze? Oh mia Len-Pra, mia povera figlia!»

A quel nome, un'angoscia inesprimibile alterò il viso del ministro.

«O mia Len-Pra,» ripeté con voce tremante.

Poi con una mossa risoluta, che denotava l'uomo audace, fece alcuni passi innanzi, dirigendosi verso una porta di legno di tek, adorna di dorature, e dicendo a se stesso con voce energica:

«Lakon-tay non deve aver paura e saprà sfidare il castigo, pur sapendosi vittima dell'odio feroce d'un nemico sconosciuto.»

Posò la destra sulla maniglia d'argento e aperse la porta, scostando le ricche cortine di seta gialla a grandi fiori azzurri che pendevano lungo gli stipiti.

Un uomo entrò, curvandosi fino al suolo con profondo rispetto.

Era un giovane di venticinque anni, dal portamento ardito e non cascante e molle come quello dei veri Siamesi, col naso affilato, gli zigomi sporgenti, gli occhi neri e lampeggianti, le labbra sanguigne ed i denti nerissimi pel continuo uso del betel.

Dal costume che indossava, una lunga camicia di seta bianca, con maniche larghissime come quelle dei Cinesi, si riconosceva in lui un mahatlek, ossia un paggio di corte.

«Che cosa vuoi, Feng?» chiese il ministro, con voce tremante. «Mi porti la speranza o la morte?»

«Disgrazia, mio signore,» gemette il paggio, tornando a curvarsi fino a terra. «Anche l'ultimo S'hen-mheng muore.»

Lakon-tay fece un gesto disperato e si coperse la faccia con ambo le mani.

«Sommona Kodom mi ha maledetto!» esclamò.

Stette alcuni istanti immobile, ritto in mezzo all'ampia sala dorata, scintillante agli ultimi raggi di sole penetranti fra i vetri variopinti delle vaste finestre dentellate, poi si scosse dicendo con voce quasi calma:

«Parla.»

«Il S'hen-mheng ha rifiutato il suo cibo ordinario, perfino le canne da zucchero ed i pasticcini di riso preparati dalle principesse reali e di cui era sempre stato ghiottissimo, poi con un colpo di proboscide ha ucciso il capo dei guardiani.»

«Ed ora?» chiese Lakon-tay, con un sordo gemito.

«Si è coricato sulle ginocchia e soffia come se avesse del fuoco in corpo.»

«E i suoi occhi?»

«Sono smorti e piangono.»

«È stato avvertito il re?»

«Nessuno osa.»

«Quei vili hanno paura!»

«Dicono che spetta a voi, che siete il ministro dei S'hen-mheng.»

«E quello che dovrà pagare per tutti,» disse Lakon-tay con voce cupa, facendo un gesto di minaccia.

Prese ruvidamente il paggio per un braccio, andò a chiudere la porta, poi lo trasse verso l'opposta estremità della sala, chiedendogli a bruciapelo:

«Credi tu naturale la morte di sette elefanti bianchi nello spazio d'un solo mese?»

«Perché mi fai questa domanda, mio signore?» chiese il paggio guardandolo con stupore.

«Rispondi!» gridò il ministro, torcendogli il braccio.

«Mio signore, chi avrebbe osato alzare la mano su quei sacri animali, che racchiudono nel loro corpo l'anima di Sommona Kodom, il dio venerato da tutti i sudditi e dal re?»

«Chi?... Chi?... Qualcuno che ha giurato la mia perdita,» disse il ministro con voce furente. «Qualcuno che non teme la vendetta del nostro dio, pur di raggiungere il suo scopo. Tu che hai sempre dormito nel palazzo degli elefanti bianchi, hai mai notato alcunché di straordinario?»

«Mai, signore, te lo giuro.»

«Nessuno si è avvicinato a loro durante la notte?»

«Non mi parve.»

«Hai sempre assaggiato i cibi che si davano ai S'hen-mheng?»

«Sempre.»

«Eppure qualcuno deve averli uccisi.»

«E chi?» chiese il paggio. «Tu non hai nemici, sei amato da tutti per la tua generosità e la tua onestà. Chi potrebbe desiderare la perdita del più valoroso generale del Siam, vincitore dei Birmani, dei Cambogiani e degli Stienghi?»

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