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I figli dell'aria è un romanzo avventuroso fantascientifico di Emilio Salgari. Due militari russi di stanza a Pechino sono accusati di omicidio e condannati morte. Pochi istanti prima dell'esecuzione vengono salvati dal provvidenziale intervento di una fantastica macchina volante condotta dall'enigmatico Comandante.I due amici, Fedoro e Rokoff, diventano i protagonisti di prodigiose avventure a bordo dello Sparviero in compagnia del ricco Comandante che tuttavia nasconde misteriosi propositi.
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Veröffentlichungsjahr: 2017
I FIGLI DELL'ARIA
PARTE PRIMA
PARTE SECONDA
PARTE TERZA
PARTE QUARTA
PARTE QUINTA
PARTE SESTA
LA FESTA DELLE LANTERNE
Pechino, l'immensa capitale del più popoloso impero del mondo, che da migliaia d'anni si erge, al par di Roma, come sfida al tempo, a poco a poca s'immergeva fra le tenebre.
Le immense cupole a scaglie azzurre dai riflessi dorati dei giganteschi templi buddisti; i tetti gialli dal lampo accecante degli sterminati palazzi della corte imperiale; i mille ghirigori di porcellana del tempio dello spirito marino che racchiude le tre incarnazioni del filosofo Laotsz; i candidi marmi del tempio del cielo; le tegole verdi del tempio della filosofia; la foresta immensa di guglie e d'antenne sostenenti mostruosi draghi dorati cigolanti alla brezza; le punte arcuate di metallo dorato delle torri, dei bastioni, delle muraglie enormi della città interdetta, scomparivano fra le brume della sera. Il fragore però che si ripercoteva in tutti gli angoli della città mostruosa, quel fragore sordo e prolungato prodotto dal movimento di tre milioni d'abitanti, dal rotolare di miriadi di carri e di carretti e dal galoppare di cavalli, quella sera non accennava a cessare, malgrado il proverbio cinese che dice: «la notte è fatta per dormire».
Pareva anzi, contrariamente alle abitudini dei flemmatici cinesi, che aumentasse con un crescendo assordante.
Sulle torri, sulle terrazze, nei cortili, nei giardini, nelle piazze, nelle vie e nelle viuzze più lontane, perdute alle estremità dell'immensa capitale, strepitavano gong e tam-tam, echeggiavano conche marine con muggiti rauchi, tuonavano petardi, scoppiavano bombe, sibilavano razzi e stridevano, zufolando, le girandole, gettando all'aria miriadi di scintille.
La notte scendeva, ma Pechino avvampava coprendosi di luce.
Milioni di lanterne si accendevano dovunque, lanterne di tutte le forme e di tutte le specie; di carta oliata dai mille colori, di corno, di talco, di vetro, di seta, di madreperla, grandi come camere o piccole come un'arancia, a fasci, a gruppi, a colonne, ad archi, a gallerie, provocando clamori di maraviglia fra il popolo che si rovesciava, come una fiumana, fra le diecimila vie della città. Scintillavano le torri, le case dei ricchi, le catapecchie dei poveri, le massicce mura, le terrazze, i templi, i meravigliosi giardini dell'imperatore, i ponti, le guglie, le barche del vecchio canale, mentre in alto s'alzavano senza posa razzi di tutti i colori e i cervi volanti, coperti di lanterne, spaziavano per l'aria oscura, gareggiando coi primi astri. Gli abitanti di Pechino salutano, con quell'orgia di luce, la prima luna del nuovo anno. È la festa delle lanterne, alla quale devono prendere parte tutti, dall'onnipossente imperatore al povero coolie affamato che consumerà il suo ultimo sapeke (piccole monete che valgono meno d'un centesimo) o venderà la sua ultima giacca, per accendere dinanzi alla cadente e squallida casupola la sua modesta lanterna di carta oliata.
In mezzo alla folla che si accalcava per le vie, ad ammirare le illuminazioni delle case signorili, od a godersi il delizioso crepitio del p'ao Ku che simulano così bene il bruciare dei bambù verdi, o ad estasiarsi dinanzi ai gruppi di alberi eretti sulle piazze, che bruciavano spandendo all'intorno mille diversi bagliori mercé una gomma speciale che li ricopre, due uomini che non indossavano i barocchi costumi cinesi, si aprivano faticosamente il passo, senza risparmiare spinte e anche pugni, preceduti da un giovane cinese che portava una lampada monumentale dai vetri di talco azzurro.
Quei due uomini vestivano entrambi all'europea, con giacche e calzoni di grosso panno azzurro, alti stivali alla scudiera e berretti di pelo come usano i russi nella Siberia meridionale. Apparentemente non avevano armi, però da un certo rigonfiamento che si scorgeva sotto le giacche, si poteva facilmente supporre che portassero delle rivoltelle o per lo meno delle pistole.
Quello che seguiva subito il piccolo cinese, era un uomo sulla trentina, bianco e rosso come una fanciulla, cogli occhi azzurrognoli; i baffetti biondi, la fronte alta e spaziosa, i lineamenti regolari e bellissimi.
L'altro invece, aveva l'aspetto di un vero orso. Faccia larga e un po' piatta, naso grosso, mascelle assai sporgenti, occhi neri, barba e capelli lunghissimi d'un rosso infuocato e pelle quasi bruna.
Mentre il suo compagno aveva l'aspetto un po' effemminato ed una statura appena superiore alla media, l'altro aveva un torso da bisonte, un petto da orso grigio, membra massicce e perfino le mani villose. Anche nelle mosse aveva qualcosa di pesante e di duro che contrastavano vivacemente con quelle agili e decise del compagno.
- Ebbene, Fedoro, ci si arriva? - chiese ad un tratto l'uomo tozzo, sbuffando come una foca. - Ne ho abbastanza dei cinesi e delle loro lanterne.
- Non sei entusiasta di questo spettacolo, Rokoff? - chiese il giovane, ridendo. - Eppure questa sera Pechino presenta delle scene meravigliose.
- Preferisco le mie steppe del Don, colle loro alte erbe: almeno là si può vedere il sole o la luna e anche bruciare selve e accendere pozzi di petrolio senza farsi schiacciare dalla folla.
- Tutti così questi cosacchi - rispose il giovane. - La steppa ed il loro fiume, le loro albe ed i loro tramonti, poi basta.
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